Mi rendo conto che insistendo sulla Libia finirò col passare per partigiano di Gheddafi e (forse il rischio peggiore) coll’annoiare i lettori. Eppure quanto sta accadendo sul campo in Libia e nelle ovattate sale degli incontri fra i Grandi della terra (l’Italia metà dentro e metà fuori con buona pace del ministro Frattini, che per il fatto stesso di dire che non soffre di complessi di esclusione, dimostra di soffrirne eccome) riguarda l’ordine internazionale e, quindi, il nostro paese e, quindi, tutti noi.
Esattamente il giornalista e politologo Miguel Martinez scrive che gli eventi libici pongono due problemi: le cause dell’insurrezione cirenaica (spontanea insofferenza popolare per il regime o complotto?); la necessità di capire perché una coalizione delle principali potenze mondiali abbia deciso di attaccare militarmente la Libia. E conclude “la prima è una questione importante per tutti i libici, la seconda per tutto il mondo”. Non essendo un esperto di politica internazionale non ho la pretesa di rispondere (al massimo posso tentare -come ho cercato di fare – di proporre qualche ipotesi fondata sul buon senso), mi limito a prendere atto del fatto innegabile che le principali potenze mondiali hanno deciso di attaccare militarmente la Libia.
Da questo dato di fatto derivano conseguenze e considerazioni che riguardano anche il settore nel quale posso vantare qualche titolo: l’ermeneutica giuridica, che consente di affermare che la risoluzione Onu n. 1973 del 17 marzo non autorizza il bombardamento delle truppe di Gheddafi e delle città (vedi Tripoli) sotto il suo controllo e tanto meno la fine del suo regime, cioè proprio quello che le potenze della coalizione (purtroppo, nell’ansia di esservi ammessa del tutto e non solo a metà, l’Italia in testa) dichiarano senza vergogna essere il loro scopo principale, l’irrinunciabile soluzione finale delle bombe à gogò.
Si tratta di una vietatissima (dalla carta dell’Onu) intromissione nelle vicende interne di uno Stato sovrano, non giustificata dal pretesto para-democratico di aiutare il popolo libico a liberarsi dal giogo, divenuto intollerabile, della dittatura. Quanto accade sul campo, con i ribelli sempre pronti a farsi riprendere dagli operatori delle tv mentre sparacchiano in aria, ma ancor più a volgersi in fuga precipitosa se per un giorno mancano i bombardamenti alleati, dimostra che almeno una metà abbondante del popolo libico è favorevole al regime di Gheddafi e che la comunità internazionale non è legittimata a intromettersi a sostegno di una fazione.
Ovviamente l’esito è scontato e sarà tanto se Gheddafi se la caverà con l’esilio e non farà la fine di Milosevic nelle celle di un tribunale costituito ad hoc. Ciò non toglie che nessuna norma del diritto internazionale legittima quanto è stato deciso dalle potenze non per caso riunite a Londra, la capitale del più vasto impero coloniale della storia. Si tratta di una pretesa fondata non sulla forza del diritto, ma sul diritto della forza. In altri termini di un ritorno alla politica delle cannoniere.
Due ultime considerazioni per l’ONU e per l’Italia. Quanto alla prima è ormai evidente che non conta nulla e che le sue risoluzioni sono solo il pretesto per dare copertura (ma la coperta è troppo corta e, quindi, viene strattonata e stravolta) a decisioni prese altrove. Quanto alla seconda i consiglieri giuridici del Presidente della Repubblica hanno urgente bisogno di rileggersi l’art. 11 della Costituzione e il rapporto fra la prima parte dell’articolo (ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli) e la seconda, che mira non a porre eccezioni al ripudio della guerra, ma a rafforzarlo, addirittura a costo di limitazioni della sovranità.
Francesco Mario Agnoli