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“LA GUERRA CANTO PERENNE TRA L’USURA E CHI VUOL BEN LAVORARE”. di Luigi Copertino

28 Gennaio 2013
in Articoli, Notizie dalle aree

 

“LA GUERRA CANTO PERENNE TRA L’USURA E CHI VUOL BEN LAVORARE”

 

RELAZIONE IN PREVISIONE DEL VIAGGIO A MOSCA

 

“Con usura non sorsero/Saint Trophime e Saint Hilaire,/

Usura arrugginisce il cesello/arrugginisce arte e artigiano/

tarla la tela nel telaio, nessuno/

apprende l’arte di intessere l’oro nell’ordito;/

l’azzurro si incancrena con usura; non si ricama/

in cremisi, smeraldo non trova il suo Memling/

Usura soffoca il figlio nel ventre/arresta il giovane drudo,/

Cede il letto a vecchi decrepiti,/ si frappone tra i giovani sposi/

CONTRO NATURA/

Ad Eleusi han portato puttane/Carogne crapulano/ospiti d’usura”

 

Ezra Pound, “Contro l’usura” (da I Cantos, c. 45)

 

“Quando cessarono i re, ricominciarono i banchieri/

gli archi dei crociati furon tarlati dal verme-oro/

Educazione monetaria, o si perde la propria libertà./

La moneta è simbolo di giustizia”

 

Ezra Pound, “Troni” (c.97-1277, c. 99-1323, c. 103-1375, c. 105-1403)

 

“Ho perso il mio centro/a combattere il mondo./

I sogni cozzano/e si frantumano -/

e che ho cercato di costruire un paradiso/

terrestre./

Ho provato a scrivere il Paradiso/

Non ti muovere/Lascia parlare il vento/

Così è Paradiso/

………………./

Uomini siate non distruttori”

 

Ezra Pound, Cantos 117 e seq. 1491-1495

 

“L’enorme tragedia del sogno sulle spalle curve del/

Contadino/

Manes! Manes fu conciato e impagliato,/

Così Ben e la Clara a Milano/

Per i calcagni a Milano/

Che i vermi mangiassero il torello morto/

Ma il due volte crocifisso/dove lo trovate nella storia?/

eppure dite questo al Possum: con uno schianto, non una lagna/

per costruire la città di Dioce che ha terrazze color delle stelle./

………………

 

Formica solitaria d’un formicaio distrutto/dalle rovine d’Europa, ego scriptor”

 

Ezra Pound, Cantos 74 e 76-903.

 

Per quanto possa sembrare inusuale ho voluto iniziare questi appunti citando, sin dal titolo, Ezra Pound, l’Alighieri del XX secolo. Se non il più grande, sicuramente, insieme appunto a Dante ed Omero, tra i più grandi poeti della storia dell’umanità. Pound, e dopo di lui alcuni suoi succedanei come il giurista Giacinto Auriti, ha intuito come nessun altro l’essenza maligna della finanza quando essa diventa autoreferenziale anziché servire l’economia reale ed il bene comune. A volte, i poeti – questa la forza dell’ispirazione, della “musa”, cui gli antichi attribuivano carattere divino (ed infatti anche i profeti biblici erano sommi poeti) – riescono intuitivamente ad arrivare alla Verità prima degli scienziati. Ezra Pound arrivò intuitivamente a verità poi più tardi, ed anche grazie alle sue intuizioni (i due si incontrarono nel 1920 quando l’economista inglese era ancora un ortodosso dell’economia classica liberista), sistematizzate scientificamente da John Maynard Keynes.

Pound era senza dubbio uno spirito religioso, non esente, perlomeno sul piano della poetica, anche da un certo influsso esoterico (non è stato l’unico, nella sua epoca, trovandosi in compagnia, solo per fare qualche esempio, di Yeats e del pur cattolico Eliot). Nelle sue riflessioni un grande posto occupò la morale confuciana – scriveva spesso mediante ideogrammi cinesi – dalla quale trasse massime di verità come quella per la quale “Il tesoro di una nazione è la sua onestà”.

Americano, e quindi di radici protestanti, fu affascinato dal medioevo stilnovistico e dall’etica cattolica medioevale sul giusto prezzo ed approfondì la storia del pensiero cristiano anti-usuraico dai padri della Chiesa (Ambrogio: “Captans annonam maledictus in plebe sit”) fino ai francescani, con particolare attenzione alla Firenze di sant’Antonino.

Credette, a torto o a ragione poco importa, di vedere nel fascismo, che si opponeva alle plutocrazie, riemergere la lotta millenaria tra “il lavoratore e l’usuraio”. Per questo si stabilì in Italia aderendo al regime di Mussolini, il quale però, dal canto suo, non gli riservò, se non negli anni della Repubblica Sociale, alcuna particolare attenzione. Arrestato, nel 1945, a Rapallo dai suoi compatrioti, fu prima rinchiuso in una gabbia nel campo di prigionia di Coltano, vicino Pisa, e poi sottoposto ad un vergognoso processo negli Stati Uniti conclusosi con una condanna al manicomio criminale, dal quale uscì diversi anni solo quando la pressione di tutta la cultura internazionale, che si era schierata dalla sua parte, riuscì ad ottenergli la libertà. Si stabilì a Venezia, fino alla morte. E’ sepolto nella città lagunare.

Spirito religioso non sappiamo se e quando si avvicinò alla fede cattolica. Tuttavia il patriarca di Venezia, Albino Luciani, il futuro Giovanni Paolo I, ha testimoniato di averlo visto più volte, ammirato e commosso, in silenziosa meditazione (preghiera?) nella cattedrale di San Marco.

Pound, giunto o meno che sia alla fede cattolica, aveva compreso – qui l’azione della grazia è tuttavia indubitabile – che nella lotta dell’umanità contro l’usura si manifestava in qualche modo la paolina “lotta contro le potenze dell’aria”.

L’attuale situazione storica contempla il profilarsi, ormai sempre più consolidato, di un potere globale, o quasi, delle forze della finanza transnazionale che tendono all’omologazione dei popoli  sotto l’incontestabile egemonia di ciò che Pio XI, nella Quadragesimo Anno del 1931, già chiamava “imperialismo internazionale del denaro” e che più recentemente Benedetto XVI ha chiamato “grandi potenze della storia di oggi … (i) capitali anonimi che schiavizzano l’uomo … un potere anonimo al quale servono gli uomini, dal quale sono tormentati gli uomini e perfino trucidati … un potere distruttivo che minaccia il mondo” (Cfr. Meditazione del Santo Padre Benedetto XVI nel corso della prima congregazione generale dell’Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi, aula del Sinodo, 11 ottobre 2010, dal sito www.Vatican.va).

Questo potere distruttivo che minaccia il mondo è, appunto, quello del capitale volatile, ossia del capitale finanziario, per sua natura tendente all’autoreferenzialità – leggasi al profitto usuraico da interesse monetario smodato – e per questo motivo, da iniziale strumento a servizio dell’economia reale e produttiva (quella utile all’umanità perché produce beni concreti e di condivisione sociale), trasformatosi in un potere nichilista che annienta l’essere umano sia nella sua essenza antropologica – vi è una stretta connessione, come avevano capito i Padri della Chiesa ma anche uno Shakespeare e più di recente un Ezra Pound, tra usura e peccato contro natura – sia nelle sue relazioni sociali, imbarbarendo tutto il panorama dell’umano.

La Tradizione cristiana, sia cattolica che ortodossa (da segnalare la recente pubblica condanna dell’egemonia della finanza transazionale del patriarca ortodosso di Istanbul), vanta una millenaria avversione verso l’usura. Un’avversione modulata, nelle sue formulazioni teologiche e filosofiche, in vario modo, a seconda dei secoli, ma sempre essenzialmente critica contro l’autonomia autoreferenziale del potere monetario dall’economia reale. La Chiesa cattolica, ad esempio, anche quando, con le iniziative dei francescani del XV secolo (i Monti di Pietà), ha ammesso la liceità di un modesto interesse monetario, a copertura dei costi di un servizio sociale come poteva essere quello di prestare denaro a contadini ed artigiani per evitare il loro sfruttamento da parte degli usurai, ha sempre chiesto, ed insegnato, che la finanza sia al servizio dell’economia reale e non di essa padrona.

Nel corso dei secoli, con l’apparire ed il progressivo consolidarsi dello Stato, quale forma moderna della Comunità Politica naturale, la finanza è stata tenuta in qualche modo relativamente sotto controllo dai poteri statali, anche perché l’economia di un tempo era più legata al territorio e gli stessi strumenti finanziari non potevano ancora, dal punto di vista dell’ingegneria tecnico-finanziaria, rendersi del tutto autonomi dal controllo politico. Certo, tra i re, e più tardi i parlamenti, e i banchieri vi è sempre stato un rapporto che era anche di reciproco interesse. Tuttavia i banchieri, per quanto potenti, non erano, in passato, in grado di sfuggire al controllo dei sovrani, dovendo quindi con essi venire a patti.

A partire dalla fine del XIX secolo e poi soprattutto nel XX secolo, almeno fino agli anni ’80 del secolo scorso, gli Stati sono riusciti a “pubblicizzare”, o perlomeno a porre a stretto servizio dei governi, le Banche Centrali, che sin dal 1694, anno di comparsa della prima banca centrale del mondo, quella inglese, si erano imposte sulla scena come il referente del mondo finanziario, godendo dell’imprimatur dei sovrani, ai quali facevano prestiti a modico interesse, ma agendo, in quanto banche private, verso il pubblico senza troppi scrupoli. Tutto il sistema bancario e finanziario, quindi, si organizzò, dal XVII secolo, intorno alle Banche Centrali per meglio consolidare, grazie all’imprimatur regale, il proprio potere verso i sudditi. Era quanto giustamente rilevava, ancora nel XIX secolo, Marx nell’unica, interessante, pagina de “Il Capitale” nella quale affronta la questione del capitale finanziario (Cfr. C. Marx, Il Capitale, I° Libro, cap. 24, 6, Ed. Riuniti, Roma, 1974, pp. 817-818).

Ma, come si diceva, progressivamente gli Stati, sotto la spinta di varie forze culturali e politiche di diverso orientamento (cattolico, socialista, nazionalista ed anche liberal-sociale), riuscirono a porre il potere di creazione monetaria, che dai re era appunto stato appaltato ai banchieri centrali, al servizio delle politiche di sviluppo dell’economia reale, imponendo alle Banche centrali di operare di comune accordo con i governi.

E’ stata, quella, l’età del keynesismo – lo sviluppo attraverso il deficit spending attuato attraverso la monetizzazione gratuita da parte della Banca Centrale del fabbisogno finanziario pubblico – quale dottrina economica prevalente, seguita in Occidente al di là delle diversità politica dei vari regimi. Benché in maniera diversa tra essi e variamente graduata rispetto alla “purezza” della dottrina, keynesiani furono sia il New Deal di Roosevelt negli Stati Uniti degli anni ‘30, sia il laburismo di Attle in Inghilterra nell’immediato secondo dopoguerra, sia il gollismo in Francia ma anche la Germania occidentale a guida democristiana e/o socialdemocratica. Per quanto riguarda l’Italia, politiche economiche statual-interventiste, ossia di tipo keynesiano, furono praticate sia prima della guerra dal regime fascista nel corso degli anni trenta, sia, nel dopoguerra fino agli anni ‘80, dal successivo regime repubblicano che però in questo si pose in continuità con le strutture dello Stato sociale ed imprenditore impostate dal fascismo.

A partire dagli anni ’80 del XX secolo, la critica del neoliberismo nella sua forma monetarista (Milton Friedman che riprendeva le critiche della scuola di Vienna, Hayek e Mises: a Vienna la massoneria liberale ha sempre avuto un certo peso, anche in età asburgica), mettendo in discussione il keynesismo, accusato di provocare inflazione con l’eccesso della spesa pubblica ottenibile dalla monetizzazione gratuita dei fabbisogni finanziari statali, ha fatto breccia nella cultura dominante e nella politica. Il cambio del paradigma culturale in favore del monetarismo si tradusse, gradualmente, nell’indipendenza delle Banche Centrali dai governi proprio mentre, al contempo, si liberalizzavano i mercati finanziari attraverso l’abrogazione di una serie di regole antispeculazione istituite sin dagli anni ’30. Questa svolta, un vero suicidio per gli Stati nazionali, ha costretto i governi, per procacciarsi i fabbisogni finanziari, a chiedere prestiti ai mercati finanziari medesimi (leggasi: grandi banche transnazionali, tipo Goldman Sach, e fondi di investimento o hedge funds). Con il risultato di ridurre gli Stati a vittime dell’usurocrazia globale.

Infatti, a causa dell’indipendenza delle Banche Centrali che non sostengono più monetariamente gli Stati, il debito pubblico è schizzato alle stelle non tanto per l’accrescimento delle funzioni pubbliche dello Stato sociale quanto piuttosto per il “vincolo da interesse esterno” ossia per l’aumento esponenziale degli interessi che gli Stati devono pagare ai “mercati”, laddove prima, quando le Banche Centrali monetizzavano il debito pubblico, tali interessi non erano affatto elevati ed oltretutto erano quelli che lo Stato doveva ad una Banca Centrale che comunque rimaneva, anche laddove non era nazionalizzata, nell’orbita del “pubblico”, rendendo il debito se non addirittura fittizio certamente sostenibile.

L’Italia offre, di questa catastrofica svolta epocale, un esempio eccellente. Infatti il nostro debito pubblico, inteso come avanzo primario ossia come debito al netto della spesa per gli interessi, è, anche oggi, del tutto sostenibile e, tendenzialmente, rientra perfino nei limiti che impone il Trattato di Maastricht quale parametro per rispettare gli accordi sull’euro. Ciò significa che lo Stato italiano è oggi costretto alle mitiche “riforme strutturali” (leggasi tagli alla spesa pubblica, tagli al sociale, aumento delle tasse, riduzione del personale statale, tagli alla sanità, aumento dell’età pensionabile, precarizzazione del lavoro, etc.) solo, come si dice nel linguaggio bancocratico, per “servire il debito”. Ovvero pagare gli strozzini globali.

Questo quadro “monetarista” è egemone soprattutto nell’UE. L’Europa, da sogno di pacifica convivenza perseguito dai suoi padri fondatori, Schumann, Adenauer e De Gasperi, si è trasformata, per il silenzioso lavorio di élite tecnocratiche transnazionali, un po’ alla volta nella “cavia” di un esperimento di tecnocrazia finanziaria, che ha avuto una accelerazione a partire dal 1989, ossia dalla caduta del muro di Berlino. La fine del comunismo ha, purtroppo, significato non il ritorno alle radici tradizionali del continente ma il dilagare del capitalismo ed in particolare, appunto, di quello finanziario e bancario.

Esistono tuttavia, fuori dall’Europa, tendenze diverse.

Il potere finanziario globale è riuscito a destabilizzare aree che, fino ad uno o due anni fa, sfuggivano al suo controllo o che esso controllava con difficoltà. Le cosiddette “primavere arabe”, infatti, sono servite in alcuni casi, come quello eclatante del regime libico di Gheddafi, a porre sotto controllo paesi ancora refrattari, almeno in parte, all’egemonia della finanza trans-nazionale.

In Italia questo obiettivo è stato raggiunto a forza di privatizzazioni e liberalizzazioni. La prima operazione di privatizzazione del patrimonio produttivo pubblico italiano, un patrimonio risalente ai tempi dell’IRI fascista, fu organizzata nel giugno 1992 a largo di Civitavecchia, in acque internazionali, sul “Britannia”, il panfilo privato di sua maestà Britannica, quando ivi si incontrarono i rappresentanti delle grandi banche d’affari internazionali (Goldman Sach, Merryl linch, Morgan Stanley, Leehman Brothers, etc.), alcuni alti dirigenti dello Stato italiano, dell’epoca, tra i quali Mario Draghi in quel momento direttore generale del Tesoro (non a caso la sua “fulgida” carriera internazionale ebbe la via aperta dopo quell’incontro) e quelli che sarebbero diventati di lì a poco i ministri del governo d’emergenza di Giuliano Amato (anche allora si era alle prese con un’emergenza finanziaria, spontanea o voluta che fosse: l’attacco speculativo di Soros alla lira per affossare lo SME, il sistema unico monetario europeo antesignano dell’euro). Le successive ondate di privatizzazioni, fino a quelle più recenti ed a quelle che già si preannunciano imminenti, sono solo le fasi consequenziali di quanto a suo tempo programmato.

Invece in paesi extra-europei, e pertanto più brutalizzabili, come appunto la Libia, lo stesso obiettivo di privatizzazione dell’apparato industriale pubblico è stato raggiunto armando i ribelli e giocando sulle rivalità ataviche tra le tribù arabe. Vecchia storia che va avanti almeno dai tempi di Laurence d’Arabia. Resta il fatto che la Libia di Gheddafi godeva di una Banca Centrale pubblica, di Stato, mediante la quale si creava e controllava la moneta necessaria per le grandi opere di interesse nazionale e di sviluppo sociale, come ad esempio un grande sistema di acquedotti e di irrigazione che si stava pensando di realizzare per strappare terre coltivabili al deserto. La prima cosa che è stata fatta dai governanti della “Nuova Libia”, succeduti al colonnello, è stata quella di privatizzare la Banca Centrale. Ora i progetti infrastrutturali studiati dal precedente regime saranno un ricco affare per i capitali finanziari occidentali.

Tuttavia, come si diceva, esistono realtà che sfuggono o si oppongono alla dittatura dei mercati finanziari.

Se perfino negli USA la Federal Reserve, pur costituendo un potere privato molto influente, ha come obiettivo statutario, a differenza della BCE, anche quello di combattere la disoccupazione e quindi di raccordarsi con il governo nelle sue politiche di intervento pubblico nell’economia, gli esempi migliori di una diversa visione del rapporto tra Banca Centrale e Stato ci provengono da paesi come l’Argentina, il Giappone, e la Russia di Putin.

In un’ottica liberale, tutti questi Paesi hanno il difetto di essere governati da un sistema “autoritario”. Persino Obama (che, sulle orme delle contraddizioni di ogni attuale sinistra, molto in questo lontana dalla sinistra operaista e “comunitaria” di un tempo, vive l’incongruenza di una visione solidarista nel sociale unita al supporto, nell’ambito etico, all’ideologia individualista ed illuminista dei presunti “diritti civili” di certe minoranze – abortiste ed omosessuali – organizzate in potenti lobbies) è definito “socialista” che nel linguaggio “conservatore” statunitense è un’offesa paragonabile al nostro “fascista” nel linguaggio della sinistra italiana.

Se l’Argentina è tacciata di neo-peronismo o neo-populismo che, sempre in un’ottica liberale, è quanto di più orrido possa darsi e se persino il Giappone liberal-democratico è mal visto dall’ortodossia liberista perché i suoi governi si ostinano a praticare politiche keynesiane grazie al fatto che, possedendo lo Stato nipponico una Banca centrale cooperante con il governo e statutariamente prestatrice di ultima istanza, può ancora permetterselo senza essere attaccata dalla speculazione trans-nazionale (il che dovrebbe far riflettere sui luoghi comuni soprattutto riguardo alla spesa pubblica, al rapporto PIL/debito pubblico ed all’inflazione), la Russia di Putin è pubblicamente tacciata, in Occidente, di “autoritarismo” e di “fascismo”.

Naturalmente Putin non è “fascista” ma sicuramente è uno statista che ha a cuore il bene della sua Patria. Ed anche dell’identità culturale e spirituale della Russia. In Occidente è incomprensibile che uno statista possa porre limiti alle esibizioni blasfeme di neo-femministe, da strapazzo e prezzolate dagli americani, come le Pussy Riot. Ma quello stesso Occidente, che pur caifescamente si straccia le vesti contro la presunta repressione putiniana poi, in nome della libertà, permette alla finanza transnazionale di ridurre la Grecia alla fame o consente la “lagerizzazione” dei palestinesi.

Quindi approfondire quali sono attualmente i rapporti sussistenti tra le Istituzioni governative russe e la Banca Centrale diventa prezioso per noi europei al fine di costruire alternative culturali critiche verso l’egemonia monetarista della BCE e per supportare idee ed aree culturali tendenti ad una, sempre più necessaria e sempre più trasversalmente invocata, riforma delle stesse Istituzioni europee nel senso di riportare le cose all’ordine naturale ossia al primato del Politico sull’economia e dell’economia reale su quella finanziaria.

Nei prossimi decenni questo sarà lo scenario nel quale si delineerà la nuova linea di distinzione “amico-nemico”, nel senso schmittiano, lungo la quale si formeranno i nuovi aggregati politici rimescolando, almeno in parte, quelli che fino ad oggi hanno calcato la scena nazionale ed internazionale.

Ecco perché chi in Occidente grida al pericolo “autoritario” o “populista” in realtà lavora per un ben più ferrea, perché globale, dittatura, quella della finanza trans-nazionale, quelle dei mercati finanziari.

L’incompatibilità tra democrazia, sovranità popolare e nazionale, identità spirituali e culturali, da un lato, e il potere finanziario globale si fa sempre più palese ed evidente, al punto che oggi, a differenza di quanto avveniva in passato, questa incompatibilità viene toccata con mano dalla gente, ferita fin nel profondo della propria anima ed ora anche della propria carne da quel potere che – è giunto il momento di iniziare a dirlo con chiarezza – ha chiaramente un carattere  luciferino.

Uno spettro si aggira, oggi, per l’Europa. Uno spettro di marxiana memoria, ma non è il comunismo. Questo spettro, che disturba i sogni dei tecnocratici e degli speculatori, si chiama “populismo”. Noi preferiremmo chiamarlo – perché la parola rende meglio l’idea – “comunitarismo”. Ma è necessario che esso sia purificato da ogni connotazione tribalista, xenofoba, etnicista e razzista, pena il diventare solo il polo negativo di una dialettica – populismo versus globalismo – che finirà per rafforzare la globalizzazione. La volgarità ed il “plebeismo” insiti in certi movimenti politici che pur credono di difendere le identità e le sovranità popolari finiranno per disgustare le coscienze e per rendere agli occhi della gente la globalizzazione e l’egemonia finanziaria trans-nazionale, per quanto moralmente e socialmente crudeli, senza alternative.

Le radici profonde, tolkienanamente, non gelano. Ma queste sono radici spirituali, trascendenti benché penetrano nell’immanente che contribuiscono ad in-formare. Invece, l’orrida triade “sangue, razza e suolo” è proprio ciò che rende impossibile qualsiasi legittima e moralmente giusta difesa dell’identità nazionale, popolare, europea.

Questo il motivo per il quale il “comunitarismo”, o “populismo” che dir si voglia, deve fondarsi sull’unico fondamento che può sancirne, con il rigetto di ogni deriva razzista e naturalista, il sicuro ed indefettibile statuto morale-naturale: la Trascendenza ebraico-cristiana. Chi, poi, volesse ampliare il raggio di azione di questo fondamento di Eternità, può anche parlare di Trascendenza abramitica per includervi pure l’islam.

La Chiesa, erede, adempimento e continuazione del vero Israele teologale, accoglie nel suo seno universale e soprannaturale tutti i popoli senza negarne, come invece fa il potere finanziario globale, le identità naturali, culturali e storiche. Ecco perché l’essere cristiano e l’essere patriota non è mai stato contraddittorio, almeno fino a quando il giusto amore per la propria identità non diventa odio verso l’identità altrui. Amare e rispettare l’identità altrui è il presupposto indispensabile e necessario per amare veramente la propria identità.

Il Cristianesimo, che del vero ebraismo è l’universalizzazione che ha permesso ai gentili di entrare, per i meriti di Gesù Cristo Dio-Uomo, nell’Alleanza salvifica del Dio di Abramo, adempiendo l’antica promessa “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle …: Tale sarà la tua discendenza” (Gen. 15,5), ha immesso nella storia dell’umanità, mediante la Chiesa, il Regno, per sua natura universale, che solo alla fine dei tempi sarà “tutto in tutti”. Di questo Regno la globalizzazione è una imitazione, una scimmiottatura. Da qui il suo carattere luciferino e da qui la necessità, per rimanere su un piano certamente più “prosaico” ma non meno rilevante per la vita di tutti noi, di ipotizzare governi dell’economia diversi da quelli proposti dalla globalizzazione neoliberista.

 

Luigi Copertino

 

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