Forse non è vero. Forse il gioco dei quattro cantoni partorito dall’iniziativa della Procura di Napoli di procedere contro l’imprenditore pugliese Giampi Tarantini e i suoi complici, accusati di estorsione ai danni di Berlusconi, non ha nulla a che vedere con l’accanimento giudiziario nei confronti del presidente del consiglio lamentato dai suoi legali e dai suoi sostenitori. Resta il fatto che gli ultimi avvenimenti confermano il fiuto del Berlusca, che, convocato a comparire davanti a quella Procura in qualità di parte lesa e testimone, si è rifiutato di presentarsi senza assistenza legale (che non spetta ai testimoni). Difatti, quando già si delineava l’ipotesi di un suo accompagnamento coattivo, è intervenuta, inattesa, la decisione del gip (poi replicata nonostante il reclamo) che ha attribuito la competenza non a Napoli, ma a Roma, luogo del commesso reato. I p.m. napoletani non hanno gradito e, ribaltando l’impostazione iniziale da loro stessi formulata, hanno chiesto al Tribunale del Riesame di valutare se il presunto estortore Tarantini non fosse invece stato oggetto di una criminogena attività del perfidissimo presidente del consiglio. In pratica l’ammissione di avere sbagliato (mentre, anche se non l’hanno detto, non aveva sbagliato Berlusca a immaginare quanto veloce sarebbe stato il suo transito da parte lesa a indagato). Ci sono volute 14 o 16 ore di camera di consiglio, ma alla fine Tarantini, scarcerato, è passato da malvagio estortore a vittima e comunque a soggetto non punibile, perché – dice il Tribunale – Giampi ha sì mentito quando ha negato che il presidente del consiglio nulla sapesse dei compensi corrisposti alle escort, ma vi è stato indotto dal premier (in concorso col giornalista Valter Lavitola), che si è così reso responsabile del reato di cui all’art. 377bis del codice penale (Induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria).
Di conseguenza la competenza a procedere non spetterebbe più né a Napoli né a Roma, ma a Bari. Insomma il processo deve lasciare Napoli, ma Berlusconi resta in ballo e nella più scomoda posizione di indagato, anche se, purtroppo, questa gli assicura il diritto di farsi assistere dai propri legali.
In ogni caso non è detto sia questo il risultato finale e che non sbuchi un quarto candidato: la procura di Lecce. Questa, difatti, ha iscritto nel registro degli indagati proprio il procuratore di Bari, Antonio Laudati, per abuso d’ufficio, favoreggiamento e violenza privata, a seguito della denuncia dell’ex-sostituto barese Pino Scelsi (ora, a sua volta, accusato di calunnia dal suo ex-capo). A parte la “violenza privata”, di cui, a quanto è dato capire, dovrebbe essere stato vittima lo stesso Scelsi, l’addebito a Laudati si può riassumere come reato di “berlusconismo”, in quanto, proprio per favorire il presidente del consiglio, su sollecitazione di Angelino Alfano (in quel momento ministro della giustizia) avrebbe rallentato le indagini sul conto di Tarantini,
La singolare situazione ha subito eccitato gli umori giustizialisti dei garanti della giustizia e della legalità che lavorano al quotidiano “La Repubblica”. Costoro, mentre non hanno nulla da dire sui “pentimenti” dei p.m. napoletani, non appena avuta notizia dell’intento della Procura di Roma di trasmettere il procedimento a Bari (per ora -sembra- solo per la posizione del Lavitola) si sono affrettati a proclamare che Antonio Laudati “deve firmare un foglio in cui si impegni a non toccare neppure una pagina di quel fascicolo. A non dargli neppure una sbirciatina”.
Se non firmerà o se non verrà rimosso dall’ufficio (come è nei voti di “Repubblica”), la competenza, uno-due-tre-quattro, passerà per connessione alla Procura di Lecce,
A differenza di ”Repubblica” non concludiamo con ordini perentori, non intimiamo a nessuno ciò che deve o non deve fare. Poniamo solo la domanda su quanto sia tranquillizzante (per i cittadini) questo uso delle procedure troppo simile al gioco degli specchi, e se per caso non getti, all’interno e all’esterno dei confini nazionali, altrettanto discredito sul nostro Paese di quello che l’opposizione attribuisce, in politica, al presidente del Consiglio. Anzi di molto maggiore, perché il discredito che riguarda l’amministrazione della giustizia mette in dubbio le basi stesse dello Stato di diritto.