A dispetto delle solenni proclamazioni di principi e dei toni aulici, con l’intervento anche del Presidente della Repubblica, che l’hanno accompagnata, trasformandola nel punto centrale dell’approvazione alla Camera della nuova legge elettorale, il cosiddetto “Italicum”, la questione della parità di genere nelle liste elettorali a numero chiuso si è rivelata per quello che è: una volgare contrapposizione di contrapposti interessi ed egoismi.
Se le riforme prospettate e sostenute dal governo Renzi, a cominciare dall’abolizione del Senato, andranno in porto il ceto politico vedrà una consistente diminuzione del numero delle poltrone da occupare. Di conseguenza, la sua componente femminile, tradizionalmente minoritaria aspira ad assicurarsi, per legge, quindi obbligatoriamente, la metà di quanto rimane, pur essendo disposta ad accontentarsi anche del 40% (una disponibilità alla trattativa e al compromesso la dice lunga sulla vera natura di motivazioni che ben poco hanno a che vedere con la posizione dell’altra metà del cielo, delle donne nella società, ma riguardano esclusivamente quelle di loro che vivono di politica).
All’opposto la componente maschile era ben decisa ad impedire un ulteriore dimezzamento delle poltrone disponibili.
Una volta tanto non si può non condividere la posizione della “pitonessa” Santanché, che si è rifiutata di vestirsi di bianco e di partecipare all’ipocrita tenzone.
In ogni caso le “quote rosa” hanno fornito ulteriore dimostrazione dell’inadeguatezza e probabilmente della incostituzionalità dell’ “Italicum”, che continua a negare, esattamente come il suo disprezzato predecessore “Porcellum”, ai cittadini-elettori la facoltà di scegliere col voto di preferenza il proprio rappresentante. L’ostinazione dei partiti a preferire agli “eletti” (dal popolo) i “nominati” (dalle segreterie) da un lato complica la questione della “parità di genere”, dall’altro diminuisce ulteriormente la già minima possibilità di scelta dei cittadini. Difatti se venisse ripristinato il vecchio e democratico voto di preferenza non vi sarebbe nessun problema ad inserire in una lista di trenta o quaranta nomi un ugual numero di uomini e di donne, lasciando piena libertà agli elettori di scegliere il proprio rappresentante in base alla merito e alla fiducia e non al sesso.
Il nuovo premier Renzi, all’esito del voto della Camera, ha voluto rassicurare le biancovestite rappresentanti femminili del suo partito, garantendo che il PD nella formazione delle liste elettorali si atterrà rigidamente ai criteri della parità di genere, sicché le rappresentanti del gentil sesso avranno garantita la metà dei posti di capilista. Da quel chiacchierone che è, non si è accorto che in questo modo le “primarie”, da lui vantate come lo strumento per ridurre il potere delle segreterie e affidare agli iscritti e ai simpatizzanti del partito la designazione dei candidati, vengono notevolmente ridimensionate proprio in questa loro funzione. Se, difatti, accadesse, come è perfettamente possibile, anzi quasi certo, che nei vari collegi elettorali (sembra saranno almeno centoventi) le “primarie” designassero al primo posto un maggior numero di uomini o di donne (quale sia il sesso prevalente non ha nessuna importanza) la segreteria dovrà intervenire per ristabilire la parità. Per di più col potere di scegliere, secondo i propri intendimenti e le proprie convenienze e connivenze, i collegi nel quale retrocedere il primo designato dai votanti (uomo o donna che sia) al secondo posto per sostituirlo con un rappresentante dell’opposto sesso che potrebbe anche avere riscosso pochi consensi, ma che dovrebbe comunque prevalere per ragioni di genere.
Francesco Mario Agnoli