Debbo confessarlo. Probabilmente condizionato da ricordi e , se si vuole, pregiudizi che risalgono alla mia giovinezza, ai tempi della guerra fredda, della rivolta d’Ungheria, di Walesa e degli operai di Danzica, ho avuto (e tuttora ho) molte difficoltà ad approvare gli interventi in politica attiva del nostro attuale (ancora per pochi giorni) presidente della Repubblica. Tuttavia proprio quanto ha fatto da un un anno e mezzo a questa parte mi costringe, a malincuore, perché su molte cose (nomina dei 10 saggi e altro) continuo a dissentire, a rendergli l’onore delle armi e a confessare che la sua statura politica supera di molte spanne (magari si dirà che non ci vuole molto) quella degli altri protagonisti della nostra vita nazionale.
Certamente il governo di Mario Monti e dei tecnici, che in fondo era un governo del presidente, il “suo “governo, non si è mostrato all’altezza delle speranze e ha fatto all’Italia più male che bene. Tuttavia va riconosciuto che Napolitano aveva molte buone ragioni per credere che non sarebbe stato così e in ogni caso che l’unica alternativa possibile, quella dell’immediato ricorso alle urne, sarebbe stata ancora peggiore. In quel momento il Pd avrebbe vinto a mani basse e il governo Bersani-Vendola che ne sarebbe uscito avrebbe seguito la stessa linea di quello tecnico, ma in termini molto peggiorativi (totale asservimento a Bruxelles, senza la considerazione ed il rispetto di cui Monti gode -a torto o a ragione – nel mondo della finanza internazionale degli eurocrati). Adesso che lo hanno visto all’opera nel suo ruolo di quasi-premier, con le sue ostinazioni, le sue chiusure ideologiche, le sue sortite da politico da bar, moltissimi se ne sono resi conto. Il merito di Napolitano è di avere intuito prima quello che gli altri hanno capito solo dopo e di avere, sulla base di questa intuizione, privato di un sicuro successo elettorale quello che è pur sempre il suo partito di provenienza.
Sulla stessa linea il suo recentissimo (lunedì 8 aprile) intervento in occasione del ricordo in Senato di Gerardo Chiaromonte, collaboratore e suggeritore di Enrico Berlinguer, del quale ha ricordato, con toni vibranti, i meriti per avere promosso nel 1976 una “scelta di inedita larga intesa e solidarietà imposta da minacce e prove che per l’Italia si chiamavano inflazione e situazione finanziaria fuori controllo”, in pratica il varo di un governo democristiano (Andreotti premier) con la benevola astensione del Pci.
Ora il 2013 non è il 1976, in particolare non vi è la minaccia del terrorismo interno, pure ricordata dal presidente, ma la crisi economica è molto peggiore e la situazione finanziaria del tutto fuori controllo. Un monito evidente a Bersani e (se è vero quanto si dice a proposito della cerchia del “tortellino magico”) ai suoi suggeritori emiliano-romagnoli. Ma a Bersani (o anche a Bersani) sono rivolte anche le dure parole di Napolitano a proposito di “campagne che si vorrebbero moralizzatrici e in realtà si rivelano, nel loro fanatismo, negatrici e distruttive della politica”. Molti ne hanno individuato i destinatari in Beppe Grillo e nel Movimento Cinque Stelle, e sarà anche così, ma in loro compagnia (non per nulla li ha corteggiati a lungo ed è pronto a rifarlo se gliene verrà offerta l’opportunità dal successore di Napolitano) c’è anche l’ostinato aspirante premier, che, in un momento drammatico come l’attuale, carico di ben altre urgenze e della estrema necessità di uno sforzo concorde ed unitario, ha messo in testa ai programmi del suo cosiddetto “governo del cambiamento” l’ineleggibilità di Berlusconi (con la conseguente, non troppo celata speranza di una sua imminente carcerazione o della sua partenza per un esilio alla Craxi).
Francesco Mario Agnoli