Sono tornato da Praga, scusate il ritardo. Convegno. Ho conosciuto una bella persona, un alto dirigente della Pubblica Amministrazione portoghese. Siamo andati a pranzo insieme. “E’ triste, mi dice, molto triste. La situazione è gravissima. La disoccupazione cresce, il Pil crolla e adesso addirittura, questo venerdì, hanno finanziato l’abbassamento dei contributi delle imprese con un aumento della quota a carico dei lavoratori. Sono pazzi, non si rendono conto, la gente è esausta, stavolta è stato superato il limite dalla Troika, nessuno vede l’uscita dal tunnel.” Già, un alto dirigente del settore pubblico.
L’Europa è stanca. Come gli occhi del mio commensale. Stanchissima.
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La Repubblica ceca non ha l’euro, e forse ora aspetterà ancora un po’. Apprendo con gioia che tra pochi mesi l’aeroporto sarà intitolato a Vaclav Havel.
Sono passati 20 anni dalla separazione con la Repubblica Slovacca, che ha l’euro.
Leggo su Eurostat che il reddito pro-capite ceco, in termini di potere d’acquisto, fatto 100 quello dell’Unione europea a 27, è pari a 80. Quello slovacco a 70. Valori stabili negli ultimi anni. Qualcuno dice che gli slovacchi ci hanno rimesso, dalla separazione dai cechi, altri dicono che ci abbia guadagnato. Sta di fatto che assieme alla nostalgia si percepisce anche una pragmatica accettazione dei fatti, un’amicizia che tiene tra i due popoli, una sensazione che all’interno di un’Europa federata importi poco se si sta insieme o separati. Se questa Europa verrà.
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Conosco Andreu Mas Colell da molti anni. Un grandissimo economista che ha lasciato una traccia nei libri di testo di economia avanzata, che, tornato dagli Stati Uniti nella sua terra, la Spagna, o meglio la Catalogna, ha fatto dell’Università di Barcellona, venti anni fa, il primo modello di ateneo per gli studi economici che potesse rivaleggiare con quelli d’oltre Atlantico, da tutti allora considerati irraggiungibili.
Fatto ciò, sempre vulcanico, Andreu si lanciò in politica, Ministro della Catalogna per l’Innovazione e oggi per l’Economia.
Sarà pure vulcanico. Ma è un uomo, ho sempre pensato, saggio, costruttivo, posato. I suoi articoli nel 2010 sul suo sito, in catalano, vedono bene l’avvicinarsi della crisi dell’euro, ma sono classici nelle loro conclusioni: la Spagna e la Catalogna devono adattarsi all’austerità. Sembrano gli articoli di oggi di Alesina e Giavazzi.
Alla BBC, a luglio di quest’anno, confessava – mentre al contempo chiedeva i soldi al governo centrale spagnolo per salvare la regione della Catalogna alle prese essa stessa con una crisi del debito – come l’austerità stesse “uccidendo il paziente”. Un giorno ci arriveranno anche A e G. Ci arrivano tutti.
Ma. A pagina 2 del Figaro di ieri è uscita l’intervista del quotidiano francese ad Andreu. Sono rimasto basito. Abbandonando i suoi toni moderati (ho letto solo i testi su siti spagnoli), ha sostenuto come “la Catalogna non ci tiene ad avere posto in una Spagna “unica ed uniforme” ” e, chiedendo un patto fiscale con Madrid, ha anche minacciato: se Madrid si rifiuta di negoziare, la via del referendum (secessionista) non può mai essere esclusa.
E così la Catalogna, come la Slovacchia con la repubblica Ceca, lascerebbe la Spagna. Ma non per entrare in un progetto europeo: per accelerare la fine dello stesso. Perché nessuno, nessuno, tiene a vivere in un progetto unico ed uniforme, ma vive là dove la sua diversità arricchisce il tutto.
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Guardatelo il buon europarlamentare federalista Cohn Bendit, nel video, argomentare contro il monarchico ed euroscettico Conte di Dartmouth che il futuro di un mondo globalizzato tra 30 anni non vedrà nessun paese europeo all’interno del G-8. Ha ragione, certo.
Ma non deve parlare al Conte, Cohn Bendit, deve parlare ai popoli. Perché il conte ha una qualche ragione, una qualche terribile ragione, quando afferma che il progetto europeo non è la cura ma la causa della malattia europea.
E ha ragione perché alla faccia di Cohn Bendit, e dei suoi sani argomenti teorici, il popolo, quando viene dominato da idee senza cuore e senza solidarietà, quando non vede l’ideale messo al servizio della gente, si rifugia lì dove è certo di ritrovare i suoi valori, nel locale. E fa bene.
La soluzione? Una sola. Che il visionario Cohn Bendit, che giustamente capisce l’importanza potenziale dell’Europa Unita si unisca al Conte di Darthmouth, che giustamente capisce l’importanza pragmatica che le istituzioni siano al servizio delle gente e non dei modelli teorici e burocratici. E se nemmeno il Conte lo capisse, che si unisca comunque a tutti quelli come noi che vogliono l’Europa dal basso, non dall’alto, che vogliono la solidarietà nei momenti difficili e che sanno che questo debito di solidarietà verrà restituito nei momenti, che sempre poi vengono, di buon raccolto. Purché il grano non sia stato allettato dall’egoismo miope dei popoli, soffiato per i campi da leader che non sanno condurre.
Da questo ideale pragmatico, e solo da questo, da questa solidarietà reale e non meramente dichiarata, dal cessare delle ipocrisie possiamo sperare che la Catalogna spagnola, la Repubblica ceca e slovacca, il Portogallo e la Finlandia siano le regioni felici di una grande Europa.
* Si ringrazia il sito http://www.gustavopiga.it/