Finita la sbornia di politici e giornalisti italiani che han fatto a gara a chi meglio magnificava la bellezza e la trasparenza del sistema elettorale statunitense, è il momento di alcune riflessioni disincantate.
La campagna elettorale durata quasi un anno, che ha confermato alla Presidenza degli Stati Uniti Barack Obama, è sicuramente figlia di un sistema politico improntato a un certo pragmatismo e con un buon livello di rappresentatività. Un Presidenzialismo spinto con due diversi momenti di legittimazione democratica per l’organo esecutivo e per l’organo legislativo.
Si sprecano quindi i raffronti con un’ Unione Europea che si ritrova ad avere una “camera alta” come il “Consiglio dell’Unione Europea”, eletto nei singoli Stati con sistemi elettorali totalmente disomogenei tra loro, un potere esecutivo dall’aspetto tecnocratico e con una composizione basata sulla rappresentanza più o meno equa del peso dei singoli Stati, e un Parlamento eletto sì democraticamente, ma con scarsi poteri rispetto alla legislazione che promana dalla Commissione.
Prima di stracciarsi le vesti e aggredire il faticosamente conquistato sistema politico del nostro continente, che vive la prima esperienza nella storia di Unione conseguita senza l’ausilio della guerra, è bene osservare come la lezione americana sulla rappresentanza dei cittadini sia storia ormai datata. Una storia archiviata progressivamente da circa una ventina d’anni, da quando i due partiti – anche se forse sarebbe più adeguato parlare di comitati elettorali permanenti – hanno incominciato a estremizzarsi nelle loro posizioni in virtù delle sempre più frequenti vittorie di deputati e senatori “outsiders”, vincenti soprattutto grazie alle ingenti somme di denaro proveniente da finanziamenti privati.
Già: il ruolo del denaro.
Senza addentrarsi in una disamina dettagliata di come sono cambiati senatori e deputati nei singoli collegi, basti pensare che, durante campagna elettorale, sia Obama che Romney hanno rifiutato il contributo elettorale pubblico, poiché usufruendone avrebbero dovuto accettare anche un tetto di spesa complessiva fissato dalla legge. Molto meglio, dal loro punto di vista, raccogliere fior fior di quattrini da finanziatori privati, che naturalmente sosterranno anche istanze di politica pubblica, volte alla tutela dei propri interessi di categoria.
Dal punto di vista di numerosi osservatori europei, questa situazione non solo non desta particolare preoccupazione o sorpresa, ma anzi viene guardata con invidia e sponsorizzata come un salvifico sistema di trasparenza della vita democratica.
Eppure negli Stati Uniti, il cui tanto celebrato sistema politico prevede la possibilità di coabitazione tra Presidente e Camere di partiti diversi, questo assume un significato profondamente incisivo sulla capacità del sistema di produrre politiche pubbliche efficaci nei momenti di necessità.
Infatti, fintanto che la distanza ideologica tra i membri della “House” e del Senato è rimasta sottile o nulla, era possibile quella macchinosa opera di concertazione che consentiva ai provvedimenti di iniziativa presidenziale di venire ugualmente approvati indipendentemente dal colore politico delle camere.
Quale momento peggiore per avere una paralisi legislativa, per gli Usa e per l’economia globale tutta?!
Questa tornata elettorale ha riconfermato Obama alla presidenza, ma al contempo ha mantenuto la maggioranza Repubblicana alla “House”, mentre al Senato la maggioranza democratica non raggiunge la quota dei 2/3 dei rappresentanti che consente di evitare il cosiddetto “filibustering” – una pratica di ostruzionismo, nata dopo la Guerra di Secessione, per tutelare gli Stati del Sud da eventuali colpi di mano degli stati del Nord -.
La politica improntata alla spesa pubblica e al deficit di bilancio dell’amministrazione Obama, non potrà ottenere consenso con facilità negli organi legislativi.
Organi forti della loro legittimazione totalmente separata da quella del Presidente; per questo motivo il sistema non prevede soluzioni degli stalli politici “alla europea” – come potrebbero essere lo scioglimento delle camere o il ritorno alle elezioni -.
Tutto ciò con il debito pubblico Usa che si avvicina alla soglia spaventosa di 16 trilioni di dollari, mentre è prossima la mannaia di Dicembre con l’aumento automatico delle imposte, coordinato a tagli di spesa, previsti dai provvedimenti lasciati in eredità dalle amministrazioni Bush. Con queste prospettive di politiche di bilancio, la già fragile ripresa statunitense è destinata ad affossarsi, con conseguenze non indifferenti per l’economia mondiale.
Queste semplici osservazioni dovrebbero essere già di per sé sufficienti a diffidare da tutti coloro che guardano ai sistemi politici altrui come qualcosa di miracoloso e che, se adottato, potrebbe risolvere tutti i problemi di produzione delle politiche e di legittimazione democratica della nostra Unione.
Noi europei abbiamo veramente poco da imparare dal modello democratico statunitense; se vorremo realmente darci un sistema federale di governo, dovremo necessariamente solcare strade nuove, sperimentando formule politiche sino a ora nemmeno pensate. Certo non possiamo arrestarci all’attuale modello confederale che presenta diverse problematiche sia dal punto di vista della rappresentatività dei decisori, sia dal punto di vista della qualità delle decisioni questi producono.
Del resto però, come già innumerevoli casi hanno dimostrato, è scritto nel destino dell’Europa di dover essere fonte di novità e di rinnovamento del mondo.
Massimiliano Morganti