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Intervista a Franco Cardini

30 Luglio 2011
in Articoli

a cura della redazione di “Megachip”, 18.7.2011

 

1)     Professor Cardini, lei ha affermato più volte di non riconoscersi nell’area politica “di destra” nella quale era comunque cresciuto ed aveva mosso i primi passi dell’impegno civile. Cosa rimane, oggi, dei suoi ideali di allora, e come pensa di rigenerarli  in assenza di chiare delimitazioni fra destra e sinistra, entrambe subalterne al mito dello sviluppo capitalistico ad oltranza?

 

Un’adeguata risposta alla sua domanda dovrebbe cominciare con un’analisi storica sull’origine della parola Destra nel lessico politico europeo dalla Rivoluzione francese ad poggi. In sintesi, la parola Destra nasce – in contrapposizione alla parola Sinistra – all’inizio della grande Rivoluzione, per indicare chi resta fedele al Trono e all’Altare in contrapposizione al valore e all’ideale nuovo, la Nazione;  e chi quindi, coerente con tale scelta, difende i valori delle comunità locali, dei corpi intermedi e delle loro antiche libertates contro il livellamento individualista ed egalitario imposto dal giacobinismo. In questo senso storico, che ha assunto nel tempo – in una linea che da De Maistre a Donoso Cortés fino a Miguel de Unamuno e a Carl Schmitt – un valore metastorico e metapolitico, io resto un uomo di Destra. Ma, sia chiaro, solo in questo senso. Un senso che investe in modo primario una profonda convinzione: che siano  cioè l’individualismo, il primato dell’economia e il progressismo materialista che il giacobinismo ha trasmesso alla borghesia liberal-liberista otto- e novecentesca i principali nemici della giustizia, della libertà e del genere umano. Il fatto è che, fra le “rivoluzioni” del 1830 e del 1848, una parte appunto di quella borghesia  individualista e progressista, creatrice e promotrice del capitalismo liberistico contemporaneo, ha apparentemente accettato – in quanto spaventata dal crescer del “Quarto Stato”, dal montare della questione sociale – una parte delle posizioni della Destra tradizionalista: la Nazione e la Patria, nati come valori autenticamente  di Sinistra, sono divenuti così valori di una “Destra nuova”, caratterizzata dall’alleanza tra i cascami ormai morenti dell’ancien régime e le borghesie ben decise a difendere i loro privilegi (che nascevano in gran parte dal tradimento rispetto ai valori dell’Europa tradizionale e dallo sfruttamento di situazioni come quella, tipica, della privatizzazione dei beni ecclesiastici). D’altronde, nella seconda metà dell’Ottocento e anche dopo non è stato infrequente che   esponenti della Destra tradizionalista abbiano invece simpatizzato con le Sinistre più autenticamente rivoluzionarie,  convinti che la loro fame e la loro sete di giustizia fossero, nella sostanza, più profondamente cristiani della difesa del privilegio, della sperequazione e dello sfruttamento. Valori e sentimenti di questo tipo hanno orientato esponenti della “Destra metastorica” nella simpatìa  nei confronti per esempio di Sorel e del sindacalismo rivoluzionario. Lo storico israeliano Zeev Sternhell è colui che a mio avviso ha meglio inteso e interpretato questa dinamica storica e politica (rinvio al suo Naissance de l’déologie fasciste, Paris, Fayard, 1989). Nella Firenze degli Anni Cinquanta-Sessanta, il luogo e il periodo della mia formazione (sono nato nel 1940), alla scuola di un giovane pensatore tardizionalista prematuramente scomparso, Attilio Mordini (1923-1966), si formò un gruppo di giovanissimi l’ardua e in gran parte oscura ambizione dei quali era collegare i valori metastorici e metafisici dell’Europa di de Maistre e di Donoso Cortés alle lotte politiche del presente.  Quei ragazzi passarono attraverso l’europeismo proposto da Jean Thiriart, che negli Anni Sessanta   proponeva di lottare per una “Nazione Europea” che si svincolasse dai due opposti blocchi liberista statunitense e collettivista sovietico e creasse una realtà nuova, solidaristica e socialista, che si collegasse con le lotte per la liberazione di quello che allora si definiva il “Terzo Mondo”. Essi provenivano in gran parte dal MSI, ma  al suo interno avevano simpatizzato per il “fascismo movimentista” (Berto Ricci ecc.), per la primissima Falange spagnola (De Rivera, Redondo, Hedilla), per la stessa “sinistra” nazionalsocialista (i fratelli Strasser), per il giustizialismo argentino e per il guevarismo; ed erano stanchi dell’anticomunismo unilaterale e dell’accademia socializzante che in quel partito regnava, e che si traduceva in una costante retorica elettoralista mentre i dirigenti di quel partito, in parlamento, conducevano regolarmente scelte conservatrici e filoccidentalistiche. Il “movimento di Valle Giulia”, quando nel ’68 i ragazzi “di destra” che si erano uniti a quelli “di sinistra” per protestare contro l’establishment capitalistico-borghese furono trattati da “traditori” e fatti pestare dalle bande di Almirante e di Caradonna, fu il segnale che ormai nessun ulteriore malinteso dialogo tra loro e quel tipo di “destra” (che riempiva il suo vuoto culturale con le maiuscole, autodefinendosi “la Destra”) era possibile.

La critica al concetto stesso di “Occidente” fu uno degli elementi che consentirono al gruppo, numericamente ristretto,  cui appartenevo, di simpatizzare un decennio più tardi, tra Anni Settanta e Anni Ottanta, per la “Nuova Destra” di Alain de Benoist e per le posizioni che in quella direzione venivano portate avanti da altri allora giovanissimi, guidati da Marco Tarchi. Si deve ad Alain de Benoist di avere “rotto” con la massima chiarezza con qualunque equivoco “di destra”, proponendo di non parlare più di “Nuova Destra” bensì di “Nuove Sintesi”. Si può dire che almeno dall’inizio degli Anni Ottanta gli amici, giovani e meno giovani, che – naturalmente con molte articolazioni e variabili – si riconoscevano e che storicamente continuano a riconoscersi in questo main stream politico e culturale, abbiano cessato definitivamente di dirsi “di destra”: per quanto possano aver mantenuto a titolo personale qualche legame di amicizia con persone rimaste per vari motivi all’interno della formazione autodefinitasi “Destra” che ha finito per passare in Alleanza Nazionale a infine confluire nella sua quasi-totalità nel partito-azienda di Berlusconi, una ben triste fine, che qualcuno di loro non meritava ma alla quale avrebbe dovuto sottrarsi.

Attualmente, la mia posizione consiste nell’impegnarmi nei limiti delle mie possibilità per il raggiungimento di un’Unione Europea che sia un’autentica compagine politica (non l’Eurolandia finanziario-bancario-burocratica che esiste oggi), che si opponga sia al “pensiero unico” ispirato al conformismo internazionale che oggi trionfa nei mass media, sia all’impero anonimo (ma non troppo) delle lobbies multinazionali e al suo “braccio armato”, costituito fino all’esperienza Bush anzitutto dalla superpotenza statunitense, e oggi vivo e attivo anche all’interno di gran parte dell’ONU. Credo che la grande battaglia da combattere nel XXI secolo sia quella contro le forze che, con l’obiettivo del profitto e dello sfruttamento del pianeta, lavorano  alla sua distruzione. Le mie posizioni di oggi si identificano largamente in quelle di pensatori come Serge Latouche, Noam Chomsky e Vandana Shiva. Come cattolico, ritengo che la grande battaglia cattolica di oggi consista nello stare accanto ai 5/6 del pianeta, a chi soffre, a chi è povero e s’impoverisce sempre di più a causa del criminale assalto del turboicapitalismo internazionale contro il pianeta, a chi lotta affinché non gli siano rubate almeno l’aria e l’acqua. Come europeo, il 16 luglio scorso ho fatto parte, da anonimo, alla massa di centinaia di migliaia di cittadini europei anonimi che sono accorsi a Vienna per prestare l’estremo omaggio alle spoglie di otto d’Asburgo, l’ultimo erede al trono imperiale d’Austria: nel nome della vecchia Europa che fu distrutta nel 1918 dall’iniqua pace di Versailles, la quale scatenò nel mondo la follìa dell’isterismo nazionalista e la ferocia dell’egoismo capitalista progressivamente sciolto da qualunque forma di controllo. Esser definito “di destra” o “di sinistra” non m’interessa: ma le posizioni che oggi difendo e con le quali solidarizzo sono comunque, in massima parte, ormai sostenute da formazioni che si dicono “di sinistra”: questo è un fatto. Dal canto mio, mi definisco cattolico, europeista e socialista. Se qualcun altro mi appiccica altre etichette, è affar suo: non mio.

 

2)     Da cattolico quale idea si è fatto del ruolo giocato negli ultimi trent’anni dalla Chiesa nel processo di giustificazione dell’esistente, ovvero dell’attuale sistema dei consumi? E’ sensato aspettarci proprio da un certo cristianesimo di base la spinta ad un rinnovamento delle categorie etiche e politiche della post-modernità?

 

Anche qui, ho molto sperato, e a lungo, nella rinascita di un “cattolicesimo tradizionalista” che riscoprisse la sacralità  e che si opponesse a un cattolicesimo che negli Anni Cinquanta-Sessanta, specie poi col Vaticano II, sembrava muoversi a gran passi nel senso della “secolarizzazione” e dell’appiattimento dei valori religiosi, della riduzione insomma della religione a umanitarismo e a sociologia. Anche il “pacifismo” cristiano mi sembrava parte di quella resa della Chiesa dinanzi ai valori della Modernità, insomma di tutto quel che aveva indotto Jacques Maritain a stigmatizzare “quella chiesa che s’inginocchiava davanti al mondo”.  Ma la svolta in gran parte provocata da Giovanni Paolo II ha prodotto – e non per colpa di quel grande pontefice – un esito singolarmente negativo: l’emergere di una sorta di pseudo-neotradizionalismo che identifica la Chiesa cattolica  con i “valori” occidentali moderni, proclama la Modernità figlia unica e legittima del cristianesimo (dimenticando lo “strappo” della rivoluzione moderna,  che tra XVI e XVIII secolo avviò e legittimò la vittoria dell’individualismo e dello strapotere dell’economia e della tecnologia consentendo che l’Occidentale, per sostenere, asservisse e sfruttasse  tutto il mondo) e bandisce crociate per la “difesa della Cristianità” – magari strumentalizzando la tragedia dei cristiani che oggi vengono uccisi nel mondo, spesso perché chi li sopprime li ritiene (a torto)  complici dei crimini dell’Occidente). Questo pseudo-neotradizionalismo sedicente “cattolico” è un’autentica  lebbra: i cattolici che lo fanno proprio in buona fede dimenticano che alla Fine dei Tempi Dio non ci giudicherà sulla base dell’ortodossia  teologica o della pratica ecclesiale o della correttezza liturgica, ma sulla sola base dell’amore e della carità. Questa è la verità cristiana, che corrisponde alla profezia di Gesù nel Vangelo di Matteo,  25, 31-46: e non ci sono sofismi alla von Hayez, non ci sono chiacchiere alla Novak che tengano.

Giovanni Paolo II, che appena eletto aveva visitato l’America Latina inferendo un colpo  durissimo alla “teologia della liberazione”, nel suo secondo viaggio in quel continente, nel 1979, s’informò puntualmente sui crimini delle dittature dei gorilas – spesso, come in Guatemala, sostenute dai servizi statunitensi più o meno “coperti” da missioni religiose protestanti – e sul tacito o esplicito appoggio che in alcuni casi gli alti gradi della Chiesa cattolica avevano loro accordato. Del resto, tra i coraggiosi oppositori di quel blocco criminalconservatore  c’erano stati anche personaggi come l’arcivescovo di El Salvador Oscar Romero, uomo di assoluta fiducia della Santa Sede e oppositore della “teologia della liberazione” che però, una volta insediato, si rese conto dell’ottusità e della spregiudicatezza di chi, anche fra i prelati cattolici, favoriva una repressione che si presentava come “anticomunista” mentre puntava solo al mantenimento dell’ingiustizia e dello sfruttamento, in linea con gli interessi di lobbies criminali quali la United Fruits Company. Ma di autentici martiri, quali monsignor Romero, poco si curano gli attuali estensori dei nuovi martirologi cattolici, per i quali contano solo i martiri uccisi dai  fondamentalisti musulmani.

Oggi, non mi aspetto nulla dalle “destre” cattoliche guadagnate al conservatorismo occidentalista. Confido invece in alcuni movimenti di base e in alcuni gruppi che svolgono un’intensa attività di tipo ecologistico e solidaristico, che s’impegnano nell’aiuto agli immigrati e nella lotta contro il pregiudizio e la discriminazione, che danno vita a un volontariato capace di divenire nel tempo – e che sta già divenendo – un nuovo grande ideale, quello della lotta capillare per l’avvento di un mondo diverso nel quale il malvagio cerchio magico produzione-profitto-sfruttamento-consumo sia battuto in breccia. Ancor oggi, troppi cattolici sono teledipendenti acritici  e la domenica – magari dopo la messa – accompagnano la famigliola  nel rito delle infauste gite festive ai centri commerciali. E’ questo conformismo, questo inginocchiarsi dinanzi al materialismo del profitto e del consumo, che bisogna sconfiggere. Non tutti gli ambienti della Chiesa cattolica si sono ancora resi conto che questa è la grande, sacrosanta battaglia dei nostri giorni. Il governo italiano, ad esempio, è inadempiente dei confronti della lotta mondiale contro l’AIDS, rispetto alla quale continua a non versare i contributi ai quali si era impegnato. Nonostante la crisi economica, o magari proprio per quella, la Chiesa cattolica dovrebbe stigmatizzare duramente queste inadempienze. Ma può darsi che essa preferisca accettare dal governo italiano altri “favori”, fiscali o di altro tipo, anziché ricordargli i suoi doveri umanitari. E’ da queste viltà che la chiesa deve guarire.

 

3)     Come legge, professor Cardini, i tentativi di Obama e degli Stati Uniti d’America di indirizzare le rivolte arabe verso esiti U.S.A-compatibili? Crede che esista davvero, nel mondo musulmano, un’attrazione crescente per la democrazia liberale occidentale?

 

Quando si è trattato di battere l’infausto Bush, siamo stati tutti obamisti: non c’era scelta. Si trattava di essere contro Bush, che andava battuto con qualunque mezzo e mandato a casa (come in Italia, oggi, bisogna mandare a casa Berlusconi).  Ma la “santificazione” di Obama è stata, negli Stati Uniti come da noi, in una certa misura opera di ex-bushisti più o meno “pentiti” desiderosi di riciclarsi: certe conversioni, tra i giornalisti e i politici, sono state tra il grottesco e il patetico.   Ci voleva poco, invece, a capire che il presidente Obama sarebbe stato un bluff, magari al di là delle sue personali intenzioni. In particolare, Obama ha “subaffittato” la politica estera all’infausta signora Clinton, che lavora in una linea si sostanziale continuità soft rispetto alla gestione dei criminali Cheney, Rìumsfeld e Rice, nonostante l’evidente fallimento delle loro scelte. I culs-de-sac afghano e irakeno ne sono la prova. Quanto al mondo musulmano, non bisogna mai dimenticare che si tratta di un miliardo e mezzo di persone, maggioritarie in una fascia intercontinentale che va dal Maghreb al nordovest del subcontinente indiano e che giunge fino al sudest  asiatico: all’interno di quella grande massa di uomini e donne e di quella varietà di popoli e di paesi, esiste un’infinita varietà di istanze e di posizioni. Che nella “primavera araba” vi fossero anche istanze tese a raccogliere alcuni elementi dalla “democrazia rappresentativa” all’occidentale, è vero. Ma l’affermarlo, se è cosa necessaria, non è tuttavia sufficiente. All’interno dell’Islam vi sono anche altre componenti. E in esso nel suo complesso è forte  la volontà di cercare strade nuove, che siano coerenti rispetto alle molte versioni della cultura musulmana elaborata all’interno di varie realtà etniche, nazionali, sociali eccetera. D’altronde, non va dimenticato che anche l’islam – una religione che, a differenza da quella cristiana, non dispone di centri istituzionali organizzati paragonabili alle Chiese – soffre di una forte crisi derivante dall’impatto con la Modernità e con la Postmodernità: non si possono valutare solo le componenti “fondamentaliste”, superficialmente giudicandole “oscurantiste” e “reazionarie” nel loro complesso, né quelle “progressiste” e “occidentalizzandoli”, giudicandole invece “progressiste” e compatibili con il nostro mondo e i nostri trends di sviluppo. La realtà è più complessa.

 

4)     Qual è, secondo lei, la strada più realistica e solidale per affrontare l’emergenza immigrazione nell’Unione Europea, tenendo conto degli sconvolgimenti sociali che ci aspettano a seguito delle politiche di austerità imposte, proprio in questi giorni, dal potere dei grandi centri finanziari?

 

E’ necessario valutare con molto rigore, ma anche con serenità, le possibilità di assorbimento di forza-lavoro  extraeuropea che i vari paesi dell’Unione possono sostenere nel loro complesso e presi uno del uno; dotarsi di strumenti di accoglienza e di solidarietà di base in modo da far fronte alle ondate immigratorie senza venir meno ai doveri umanitari ma al tempo stesso prevenendo per quanto possibile i fenomeni di sovrappopolamento dei profughi e coinvolgendo in modo serio i paesi mediterranei non-europei in modo da indurli a una seria collaborazione nella sorveglianza e nel contenimento del fenomeno; favorire dei rimpatrii ordinati e provvisti delle necessarie garanzie (non si può “riconsegnare” nessuno a governi in grado di rispondere alle istanze del tempo presente con i soli strumenti della repressione, della detenzione concentrazionaria e della violenza); mettere a punto strumenti che ci consentano di porre da canto le soluzioni desuete fondate sia sull’assimilazionismo “alla francese” (che umilia le persone e le culture), sia sul “multiculturalismo” all’inglese o all’olandese (che crea “isole” di  “diversi” all’interno di società che li tollerano e li sfruttano ma che non li comprendono). Si deve puntare verso nuove sintesi che permettano ai futuri cittadini europei, nati in Europa da genitori extracomunitari, di vivere nella loro patria europea senza per questo venir meno alle tradizioni dei loro padri o essere obbligati a dimenticarle e a tradirle.  Quanto alle politiche di austerità, è evidente che non si può accettare il principio secondo il quale profitti e proventi degli speculatori (quelli spesso eufemisticamente definiti “imprenditori” e “azionisti”) debbano essere salvaguardati nel nome della “ripresa” e dello “sviluppo”, a spese unilaterali delle categorie a reddito fisso e dei ceti meno abbienti. Bisogna lottare contro concentrazione della ricchezza e rendite parassitarie, compresi i profitti finanziari, che non possono essere salvati attraverso i “tagli” a quel che resta dello stato sociale.  Gli extracomunitari non vanno considerati estranei a questa lotta: il “lavoro nero”, ad esempio, si traduce in una forma di enorme evasione fiscale che va a danno nostro come loro. Il punto è che oggi ormai purtroppo, in Italia, non esiste più una “coscienza sociale” come parte della “coscienza civica”. La grande battaglia sta tutta nella sua ricostruzione e nel coinvolgimento in essa degli stessi extracomunitari. E bisogna ricominciare tutto da capo, dai giovani, dai ragazzi. Le vecchie generazioni sono perdute: se così non fosse, gli operai che oggi sono cinquanta-sessantenni non si sarebbero mai convertiti alla xenofobia leghista. Prendersela con gli extracomunitari che “rubano il lavoro” è lo stesso errore del cane che, percosso dal padrone, morde il suo bastone.  Bisogan ricominciare da capo: insegnare ad azzannare i padroni. Meglio se alla gola.

 

 

 

5)     Nel libro che lei ha scritto assieme a Sergio Valzania, “Le radici perdute dell’Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali”, raccorda molti indizi che dimostrano un possibile diverso destino dell’Europa, non quello poi modellato dagli stati nazionali. Oggi che sono in crisi verticale sia gli Stati nazionali sia il modello di Europa degli ultimi sessanta anni, e senza un Carlo V all’orizzonte, possiamo immaginare un ulteriore diverso destino storico, un altro cammino culturale e politico per il continente?

 

Per questo, e non per un sussulto di reazionarismo estetizzante, ero il 16 luglio 2011 a Vienna per render omaggio alle spoglie dell’ultimo erede degli Asburgo. L’Europa deve ritrovare se stessa in un cammino che la Modernità ha interrotto imponendo la vittoria degli assolutismi prima, degli stati nazionali poi. Una scelta che ci ha regalato due guerre fratricide. Il cammino da riprendere è quello interrotto progressivamente tra Cinque e Settecento: il cammino del solidarismo, della restaurazione dei “corpi intermedi” costituiti dalle comunità locali con le loro prerogative e i loro diritti, del riconoscimento generale di una comune patria europea che fin dal medioevo ha costruito una cultura fondata sul pluralismo delle lingue e delle tradizioni e sull’unicità  della tradizione giuridica ed etica proveniente dall’incontro della romanità con il cristianesimo e con il contributo delle etnìe che nell’eredità di quelle tradizioni si sono riconosciute. L’Unione Europea nata nel 1951 ha cominciato, come si usa dire, col piede sbagliato: dal denaro, dalla moneta unica, e dalla istituzioni burocratiche sostenute da un’impalcatura democratica formale. Ma i popoli sono rimasti fuori da quella impalcatura che hanno pur subìto. Non sono nati difatti né una scuola europea comune per tutti i cittadini futuri, né un esercito comune (la difesa del nostro continente è stata affidata alla NATO), né un vero apparato giuridizionale. Secondo i principii della politica internazionale, per costituire una corretta compagine politica occorrono quattro cose: la Bandiera, vale a dire le istituzioni (noi disponiamo solo di un ipertrofico e costosissimo parlamento Europeo, dotato di pochi poteri reali); la Moneta (ce l’abbiamo, l’euro: ma da sola non basta); la Toga, cioè le istituzioni giudiziarie (a loro volta confuse); la Spada, cioè la difesa (ma l’esercito “europeo” non esiste: è rimpiazzato dalla NATO, vale a dire da una Spada in mano altrui). Bisogna ricominciare da zero, con un obiettivo: la creazione di un autentico patriottismo europeo, che porti alla fondazione di un’Europa che non sia più quella dei governi e degli stati, ma quella dei popoli. Il primo obiettivo realistico, oggi, è il ribadire la volontà europeistica di stare insieme contro le tentazioni micronazionalistiche, le quali servono a dividerci di nuovo per mantenerci al servizio della NATO e delle lobbies multinazionali, che ovviamente tendono a dividerci  per meglio controllarci. Negli Anni Cinquanta, gente come Alytiero Spinelli credeva che l’unità europea fosse dietro l’angolo e s’illudeva che le superpotenze lo avrebbero permesso. Mezzo secolo dopo, sappiamo che tutto è molto lontano e che i poteri forti mondiali non permetteranno mai  il nascere di un’Europa effettivamente libera, indipendente e unita. Oggi, per sperarvi, ci vuole un sogno coraggioso, al limite della follìa. Bisogna essere al contrario realistici: e chiedere l’impossibile.

Tags: cardinimedioriente
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