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Il nostro ultimo addio all’Imperatore di Adolfo Morganti

3 Agosto 2011
in Articoli, Editoriali

Sua Altezza Imperiale e Regia l’Arciduca Otto d’Asburgo, figlio primogenito del Beato Imperatore Carlo I d’Austria-Ungheria, Presidente d’Onore dell’Unione Paneuropea Internazionale, è morto il 4 luglio scorso, presso la propria magione bavarese, all’età di 98 anni.

Identità Europea, assieme alle altre Associazioni che ci aiutano ad organizzare l’Università d’Estate di San Marino ha immediatamente deciso di dedicare all’illustre figura dello scomparso il 16° Corso dela stessa, che si svolto da Venerdì 15 a Domenica 17 luglio 2011 sul tema “Europa 2011: il ritorno dei piccoli Stati. Autonomie, piccole patrie, processi di sussidiarietà”, nel corso del quale a più riprese diversi relatori hanno avuto la possibilità di ricordare e commentare il ruolo dell’Arciduca all’interno della grande storia dell’Europeismo novecentesco, ma anche nella storia più piccola del nostro lavoro di militanza e testimonianza culturale.

Avuta conferma, grazie alla squisita cortesia dell’Arciduca Carlo – figlio maggiore dell’illustre scomparso – della data delle esequie solenni presso la Cattedrale di Santo Stefano in Vienna, non potevamo esservi assenti, a dispetto della loro coincidenza con la giornata clou dell’Università d’estate 2011, sabato 16 luglio; pertanto una delegazione della nostra Rete associativa, composta da Franco Cardini e dal sottoscritto, è riuscita – malgrado difficoltà logistiche veramente singolari nell’Europa “globalizzata” che ama descriver se stessa come il luogo degli spostamenti rapidi – a portare la nostra bandiera rossa ed oro a Vienna sulla tomba di Monseigneur, come veniva appellato dai collaboratori più stretti. Sulla tomba dell’Imperatore. E con la bandiera, i pensieri, i saluti e le preghiere affidateci direttamente da tantissimi nostri Soci ed amici.

 

Preso atto della più totale censura attorno all’evento da parte della stampa italiana, unita come al solito concordemente da destra a sinistra nel rimuovere un evento storico di importanza realmente europea (la riaffermazione nel rito funebre del diritto e della missione della Monarchia Imperiale cattolica ad ordinare il mondo), ci è quindi sembrato necessario scrivere più che la nostra cronaca , la nostra esperienza di questa giornata, al fine di farne comprendere il significato per quanto a questa penna sia concesso. Soprattutto a fronte della patetica miseria in perfetta malafede di un altro stupro mediale, quello dei Telegiornali italiani che di questo momento hanno tratto solamente una carrellata gossip di teste coronate.

 

Chi – come il sottoscritto – ha avuto la ventura di partecipare nel novembre 2002 alle celebrazioni viennesi in occasione del 90° Genetliaco di Sua Altezza Imperiale e Regia l’Arciduca Otto d’Asburgo, già sperimentò, normalmente con un notevole stupore e un senso di speranza, l’impatto con un rito ed un popolo che riconosceva nella Persona omaggiata il Principio e la Funzione imperiale, e ad essa, attraverso la Persona, elevava preghiere di speranza e di “lunga vita”. Un rito antico e solenne, ossatura d’Europa; un popolo sovranazionale, sparso nelle membra disperse dell’antico Impero cattolico europeo che in quel giorno ri-convenne nell’antica Capitale imperiale. Rispetto ai quali l’occhiuta polizia del pensiero non aveva ceduto astio e volontà di impedire che i Simboli dell’antico Retto Governare ricominciassero a vivere al crepuscolo della modernità. Il dato simbolico – in quell’occasione – fu la reiterazione della proibizione di suonare all’interno della medesima e magnifica Cattedrale di Santo Stefano il Volkshymne, l’haydninano Inno Imperiale; ed esso fu ripetutamente solo accennato dall’orchestra di Schuetzen che animava la festosa liturgia, straboccante di gente. Ma la censura, nella sua assoluta stupidità, fu del tutto ininfluente: tre note bastano, eccome, a far vivere l’intera melodia.

 

Quasi nove anni dopo, la serena morte dell’Imperatore chiude un’epoca. Con l’addio a Sua Altezza Imperiale e Regia l’Arciduca Otto d’Asburgo si conclude in via definitiva il Novecento. Un secolo blasfemo e gnostico, all’interno del quale – e proprio l’Arciduca nella prima metà del secolo ne fu testimone ed ambìto pegno – si è fatta parossistica la lotta michaelita fra gli adepti del Signore delle Iniquità, che ad ognuno ed a tutti ripete in modo assordante “fai quel che vuoi, adorami, ché tu sei Dio” e le schiere arcangeliche che ripetono in aeterno la sfida, l’invocazione ed il canto “Quis ut Deus?”.

 

Penso quindi sia importante narrare quello che ho visto e vissuto in questa giornata.

 

Sbarcati, io e Franco, in una mattinata di sole e venticello liberante Vienna dalle cappe umide che affliggono l’Italia da cui proveniamo, fin dalla generosa ora dell’apertura dei negozi, le 10, ci rendiamo conto che la città è avvolta da qualcosa di speciale. Da lontano, la magnifica mole scura del Duomo di Santo Stefano è già avvolta da un brulicare sospetto. Ci avviciniamo. Il grande portale è chiuso da alte inferriate assediate da torme di turisti armati di macchinette digitali spernacchianti flashes verso l’oscurità della grande navata centrale. Dinanzi alla facciata l’ampia piazza è piena di gruppi misti: turisti chiassosi, i primi vestiti scuri del lutto, le avanguardie delle uniformi schutzen e degli antichi reggimenti. In mezzo ad essa, la Televisione di Stato austriaca ha costruito un’altissima torre scura per le riprese, che fronteggia un immenso schermo gigante che chiude un lato della piazza (un’altra, altrettanto enorme, è eretta di fronte all’ingresso della Cripta dei Cappuccini). Giriamo attorno al Duomo: negli uffici del Museo limitrofo, trasformati in punto d’appoggio, iniziano a convergere i labari, le divise e gli strumenti delle Corporazioni studentesche da tutte le università d’Austria. Dietro all’abside sono parcheggiati in fila una decina di autobus della Polizia di Stato e due enormi bagni chimici rossi grandi come vagoni ferroviari, sopraelevati per esser ben visibili anche da lontano. Tutto ci parla di una folla che non solo riempirà il Dom (a mia stima circa 3mila persone), ma dilagherà tutt’attorno. Migliaia di persone…

Mancano 5 ore all’inizio della celebrazione.

 

Capiamo che attendere l’orario ufficiale di ingresso nel Tempio (le 14,15) diventa pericoloso. Andiamo a mangiare qualche piatto tipico viennese innaffiato dal ricco vino della capitale, ed a rilevare alcuni reparti di lanzichenecchi fiorentini giunti a Vienna con mezzi eterogenei. Non tutti si presentano puntuali. Chi ha scelto di venire in auto è fermo in colonna: 50 km di coda in autostrada prima di giungere alla periferia della città; ci metteranno ore e giungeranno a celebrazione iniziata, ma giungeranno, e ci saranno – felici – anche loro, con l’immancabile vessillo del Granducato al vento.

Riflettiamo. Sulle autostrade d’Austria, un postmoderno serpente d’acciaio si snoda lento ed immenso, verso quella che per un giorno ridiventa l’Ombelico del Mondo. La Capitale dell’Impero: tale poiché in essa, ancora una volta, il feretro dell’Imperatore verrà accompagnato là dove i suoi Avi riposano. Quanto è grande questo Jormungandr ripieno di cuori? Quanti ne porta con sé? E se la testa del serpente si incunea caparbia fin dentro la navata centrale di Santo Stefano, da quali luoghi partono le sue code? Migliaia di persone in arrivo…

E mentre consumiamo il rapido pasto, incessanti passano a larghe falcate dinanzi a noi, lungo i grandi viali che convergono verso il Dom, centinaia e centinaia di uomini, donne e ragazzi nelle uniformi dell’antico Impero, misti a austere compagnie, famiglie, processioni nerovestite con le decorazioni a contrasto sul colore del lutto; colpisce una magnifica dama islamica, elegantissima nel suo chador completamente nero, sui tacchi altissimi, che le incornicia gli occhi da sortilegio; tutto attorno i turisti impazziscono e fotografano ogni cosa. La loro stupida allegria oggi, persino, non adombra.

 

Alle 13 entriamo in Santo Stefano. A 500 metri dall’obiettivo dobbiamo superare una vera e propria frontiera nel confine transennato che pare isolare (ma in realtà unisce nel profondo) l’area del Dom dal resto della città, con i relativi problemi del controllo d’identità e qualche correlato equivoco; accanto ad un bordone di tedesco, le note di lingue diverse che si mescolano compongono una melodia sovranazionale. I sopravvissuti ai controlli (e sono felicemente fra questi) marciano verso il portone principale del Dom. Dinanzi ad esso si affollano centinaia di portabandiera in uniforme: reparti militari, Ordini Cavallereschi, Compagnie di Schutzen, Labari di Associazioni religiose, territoriali, di volontariato. Si fatica a farsi strada nella calca. Sbatto addosso ad uno Schutze dai colori che riporto all’Italia e gli chiedo se è già giunto un amico, l’Assessore alla Cultura della Provincia Autonoma di Trento; mi guarda storto e mi avvisa che è della Val Venosta, e “quelli lì” non li conosce mica. Comprendo che anche sotto l’Impero c’era sempre qualcuno più terrone di te… consolante! Deviati ad altra porta risaliamo la corrente della rappresentanza storica dei Croati: fra loro due marcantoni di due metri indossano le uniformi ottocentesche dei reparti delle isole dalmate, identiche a quelle dei loro padri, gli Schiavoni che difesero Venezia dai giacobini di Napoleone, anche contro sé stessa e la viltà dei suoi capi. Aria d’Europa.

Dietro di loro incede un picchetto d’onore dell’Esercito austriaco di oggi, che monterà la guardia al feretro dell’Imperatore: l’Arciduca Otto d’Asburgo avrà oggi onori ufficiali da quella Repubblica che non l’ha mai amato, l’ha sempre temuto per l’affetto che lo lega al popolo, e che oggi, forse proprio perché è morto, ha deciso di trattarlo meglio del solito. Conoscendolo un poco, dall’alto dei Cieli l’Arciduca gradirà il gesto, senza infierire.

 

La Chiesa si riempie rapidamente. Il feretro di Sua Altezza Imperiale e Regia l’Arciduca Otto d’Asburgo, figlio primogenito del Beato Imperatore Carlo I d’Austria-Ungheria, Presidente d’Onore dell’Unione Paneuropea Internazionale è posato alla fine della navata centrale del Dom, coperto da un vessillo giallo e nero con gli stemmi dell’Austria e dell’Ungheria riuniti dalla Corona imperiale: è l’emblema dell’Impero federale, cui lavorarono Massimiliano e Francesco Ferdinando, che doveva vedere accanto ai primi due anche gli stemmi del Vicereame – e poi Regno – d’Italia e del Regnp dei popoli slavi. Un sogno ucciso dalle utopie di loggia, dagli attentati anarchici e dai nazionalismi. Destra e sinistra – si direbbe oggi – coese nel mordere a morte l’antico sogno imperiale: così è stato, e l’Europa del Novecento non ne ha guadagnato che sangue e lacrime; per poi ripercorrere, sulle ginocchia e titubante, lo stesso percorso verso l’unità nella diversità. L’Arciduca Otto d’Asburgo l’aveva compreso perfettamente, e per questo, proprio in quanto erede spirituale e culturale della millenaria tradizione Imperiale europea, poteva operare in aiuto e supporto al sogno dell’Europa Unita.

 

Mentre le navate laterali del Dom si affollano, mi avvicino fuori-programma al feretro sul lunghissimo tappeto rosso che ne solca del color del sangue la grandiosa navata centrale, scortando un’alta autorità trentina. Lui si inchina composto al suo Imperatore; io, dopo di lui, mi inginocchio di fronte a quella bara, ne bacio la bandiera e vi appoggio il nostro bel vessillo porpora ed oro, con il Chi – Ro costantiniano contornato dalle dodici stelle d’Europa. Una reliquia da contatto, che Franco Cardini terrà per sé. Mi viene in quel momento improvvisa in mente una bellissima poesia di Ibanez Langlois sul sacerdozio e sulla vertigine che la coscienza di esso provoca nel piccolo uomo che esso trasmuta. Anch’io, piccolo cavaliere di provincia, che vengo dalla più piccola ed antica Repubblica d’Europa e del mondo, ho avuto il privilegio di baciare il vessillo funebre dell’Imperatore dell’Europa cattolica e la mia piccola e indegna spada, capace solamente di punzecchiare il ventre del drago, ne è stata gratificata. Come il prete di Ibanez, anche a me scappano lacrime. E gratitudine.

 

L’organo immane della Cattedrale segna l’inizio della funzione. Un messa da Requiem di Haydn per solisti, coro ed orchestra, altro cristallo di quel mondo che qui si è riunito per accompagnare Otto d’Asburgo alla Sua ultima dimora terrestre. A fronte di un “popolo” che nella sua caleidoscopica varietà di lingue, nazionalità, vesti e ceti riporta all’Unità del rito la molteplicità dell’identità d’Europa, inzeppando il Dom in ogni ordine di posti e luoghi, inizia la parata cerimoniale del Clero. Dalle navate laterali a quella centrale, le articolazioni dell’Ordo sacerdotalis si avvicinano lentamente all’Altar Maggiore. Assieme al Cardinal Christoph Schönborn, Primate di Vienna, concelebrano la Messa 15 Vescovi, vertici e simboli di Diocesi che dal meridione balcanico di Banja Luka si dispiegano per tutta l’antica Carta dell’Impero. E accanto ad essi, la presenza di esponenti religiosi Ortodossi e persino Islamici rimaterializza per un attimo il grande e generoso equilibrio religioso imperiale. La Celebrazione, tutta in lingua tedesca, si segue facilmente anche per chi sia a digiuno della lingua di Goethe: segno efficace dell’universalismo cattolico, che si riverbera nell’universalità dell’Impero stesso. Ed alla fine della funzione, un accordo d’organo possente intona il Volkshymne, l’Inno imperiale cantato in tutte le lingue: e nel canto comune il sogno dell’armonia imperiale pare risorgere, qui ed ora, sulla bara di un uomo mite e fedele che fino alla fine non ha tradito la bandiera che ora Lo ricopre. Per chi conosca la triste storia dell’acredine con cui il socialismo austriaco tentò nel secondo dopoguerra di proibire, cancellare, distruggere la memoria dell’Impero partendo dalla messa al bando dell’Inno stesso, per chi ricorda la tristezza con cui il 90° Genetliaco dell’Imperatore non poté concludersi con questa bellissima pagina musicale haydinana (allora l’organo si limitò a scolpire le prime tre note dell’Inno, per poi fermarsi più volte). Ora l’esplosione coinvolge tutti: un altro segno di quello che l’occhiuto ideologismo novecentesco oggi è stato costretto a concedere…

 

Infine, il Corteo funebre. Chilometri di persone hanno accompagnato per ore l’Imperatore alla sua ultima dimora, la Cripta dei Cappuccini. Un immenso attestato di amore che si è disteso attraverso tutti i luoghi della Vienna imperiale, mentre gli schermi giganti della Televisione di stato austriaca sparsi lungo il percorso, restituivano scorci impressionanti degli snodi più belli del corteo e della città. Vienna, città imperiale. Vienna, privata della pompa dopo il 1918, della libertà dopo il 1945, è tornata a riprendersi la sua storia. Chilometri di storia.

E alla fine del viaggio, per tre volte, nell’antico rito degli Imperatori, si è bussato alla porta della Cripta. La prima volta la lunga recitazione dei titoli dinastici e nobiliari dell’Arciduca Otto d’Asburgo non ha ottenuto altro che la risposta “Non lo conosco” da dietro una porta chiusa; la seconda volta la parimenti lunga litania dei suoi titoli accademici, politici ed istituzionali nelle istituzioni Europee ha ottenuto solamente la medesima risposta. Infine, bussando alla porta l’uomo, il cattolico, il peccatore, è stato riconosciuto ed accolto.

 

Ora l’Arciduca Otto d’Asburgo, Presidente d’Onore dell’Unione Paneuropea Internazionale, riposa assieme ai suoi Avi. Ma non a Suo Padre, la cui tomba rimane ove l’esilio degli uomini lo portò, e la povertà lo uccise. Eppure anche il ritorno a Vienna della salma del Suo figlio ha un significato ed è un segno. Nel momento in cui ogni sicurezza del mondo globalizzato crolla, ogni utopia svela la propria inconsistenza, i pilastri della terra europea si svelano ancora una volta essere sempre lì. In attesa che su di essi una nuova generazione di Europei ri-costruisca.

Dal Cielo di Giove, l’uomo, il politico, l’Imperatore preghi per tutti noi.

 

Haiku

 

Tristezza, gioia.

Finalmente riposa,

l’Imperatore.

 

N.B. l’Haiku è una tradizionale forma di poesia giapponese, composta di tre versi di 5 – 7 – 5 sillabe.

Adolfo Morganti

Tags: europamorgantiotto d'asburgo
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