Banalità del Male. E’ molto probabile che il trentaduenne Anders Behring Breivik, autore della terribile strage di Oslo, sia in realtà solo un piccolo insicuro mitomane affetto da quello che gli psicanalisti chiamano “il complesso di Erostrato”: da quell’Erostrato che nel 356 a.C. appiccò il fuoco al tempio di Artemide in Efeso allo scopo di essere ricordato in eterno per uno che aveva fatto “qualcosa di grande”, e che divenne l’”eroe” di un romanzo dell’illuminista Alessandro Verri (che si sarebbe poi convertito al cattolicesimo tradizionalista).
Desiderare di essere ricordato per qualcosa, per qualunque cosa: anche per qualcosa di negativo, tanto più che oggi, nella società dello spettacolo e dei consumi – lo ricorda bene Umberto Eco – col tempo il perché uno è diventato famoso si dimentica, ma la fama può invece restare. Si sta scavando nel passato di Breivik. Pare che, a detta di qualche suo conoscente, si tratti di un ex adolescente introverso e forse affetto da vari complessi, che a 19 anni dopo un viaggio degli USA si sarebbe sottoposto a un intervento di plastica facciale per acquistare “connotati piu virili” e avrebbe cominciato a vantare successi, ricchezza, conquiste femminili e cosi via. Si parla di un grosso memoriale che egli avrebbe messo on line in inglese, una “Dichiarazione d’indipendenza europea” nella quale egli si scaglia contro immigrati musulmani, multicultualisti e marxisti, sostenendo la necessità di assimilare o di cacciare i primi entro il 2020 e di perseguitare e colpire fisicamente i secondi e i terzi. Il memoriale si fregerebbe di simboli definibili come neonazista e conterrebbe richiami ai Templari e al Graal, secondo una mitologia parapolitica che – con molte variabili – è piuttosto diffusa tra i gruppi e gruppuscoli di estrema destra ormai da circa un mezzo secolo.
Breivik, che sembra essersi largamente ispirato allo statunitense Theodore Kaczynski, noto come Unabomber, esprime un giudizio molto comune all’interno delle formazioni estremistiche dell’attuale destra, quello che ci si debba cioè opporre alla “cultura della resa”: espressione questa che comprende, evitando articolazioni critiche, qualunque atteggiamento di comprensione, di rispetto e di buona volontà nei confronti degli extracomunitari che stanno arrivando nel nostro continente; e che nell’emigrazione scorge la causa principale della sua crisi e delle sue prospettive di decadenza, senza nemmeno provar a impostare una più seria e articolata analisi del processo di globalizzazione di cui le migrazioni sono parte: e senza dubbio più effetto che causa.
Una caratteristica comune e costante di questa paraideologia è che essa appare lo sviluppo di quella espressa da gruppi che alcuni decenni fa erano soprattutto antisemiti e anticristiani: mentre oggi sembrano essersi riciclati – senza dubbio per cavalcare il successo di tesi che, specie negli otto anni dell’era di George W. Bush jr., apparivano “vincenti” – in una direzione fortemente filo sionista e filo cristiano. Una metamorfosi repentina, disinvolta, che si è sottratta alla fatica di qualunque autoanalisi e auto giustificazione: di colpo, sia la “civiltà cristiana” (ma nei paesi protestanti si evita di spiegare il ruolo, al suo interno, del cattolicesimo) sia Israele paiono divenuti i sicuri baluardi nella lotta contro l’ondata musulmana che minaccerebbe di sommergere il mondo.
Tesi del genere si sono affermate da tempo anche da noi: e sono state fatte proprie, in modo talvolta apparentemente anche meno grossolano, da gruppi vicini alle tesi neoconservatives e teoconservatives che si dicono “cristianisti”, dispongono di riviste e di siti on line e si fanno paladini di un cattolicesimo a parole rigoroso sotto il profilo del rispetto della tradizione, dell’ortodossia dogmatica e della correttezza liturgica (con una sintomatica insistenza sulla critica di quello ch’essi definiscono “il relativismo” e una tendenza a condannare le prospettive del Concilio Vaticano II), ma dal quale appare assente qualunque tensione solidaristica e sociale. Da questo “cattolicesimo” appare altresi scomparsa qualunque critica nei confronti degli sviluppi “turbo capitalistici” della finanza e dell’economia, in una direzione che appare largamente ispirata al libertarianism statunitense e nella quel sembra molto forte il richiamo positivo, d’origine calvinista, al profitto e all’arricchimento come valori indiscriminatamente positivi. In altri termini, questi “cristianisti” – non diversamente dai loro amici e sodali, gli “atei devoti” – tendono a cancellare qualunque critica alla “secolarizzazione della società”, cioe alla rivoluzione individualistica dalla quale, tra Quattro e Settecento, è scaturita la civilta occidentale moderna, quella che ha preteso di poter vivere etsi Deus non daretur.
L’attuale “fondamentalismo cristianista” pretende di cancellare quello strappo e di riconoscere nell’Occidente attuale la prosecuzione senza soluzioni di continuità della societas christiana precedente le grandi rivoluzioni sei-settecentesche e lo sviluppo del capitalismo internazionale; esso pretende di ridurre la problematica del mondo attuale al solo problema dell’opposizione a un supposto “dilagare dell’Islam”, postulato alla luce sia di una semplicistica proiezione statistica del tasso d’incremento demografico del mondo musulmano odierno, senza alcuna valutazione seria sia delle differenze interne all’Islam (che non dispone ne di un centro propulsore unico, ne di un’intima coerenza politico-sociale), sia del dogma dell’inevitabilita dello “scontro di civiltà”, parola d’ordine ideologica travestita da previsione sociologica e diffusa dal pamphlet (tutt’altro che un saggio scientifico, per quanto come tale presentato) pubblicato nel 1996 da Samuel P. Huntington. Esso pretende di lottare contro il “relativismo”, confondendo però il “relativismo etico”, che coincide con l’abbandono e il tradimento dell’etica cristiana all’interno della società dei credenti, con il “relativismo antropologico” che altro non è se non il riconoscimento del fatto che nessuna gerarchia obiettiva puo essere sostenuta nel confronto tra le culture e che ciascuna di esse dev’essere giudicata dall’interno di se stessa e dei suoi principii (e poi ovvio che esiste, alla luce della fede, una Verita assoluta: ch’è appunto categoria propria della fede e inerente alla teologia, ma che non riguarda le storia se non alla luce del mistero dei Novissima, non suscettibile di venir tradotto in termini immanentisticamente storici e tanto meno politico-sociologici).
Breivik appare parte,m sia pure marginale e demenziale, di questa galassia di pseudo pensiero politico e religioso. Ora, non si vuol certo dire che tutto il “fondamentalismo cristianista” sia suscettibile di trasformarsi in pericolo terrorista. S’intende pero diffidare chiunque dal proporre analisi superficiali e riduttive di eventi come la strage di Oslo. E’ ovvio che essa sia esito della volonta di un folle: Breivik e, a differenza del “suo eroe” Parsifal, un “impuro folle”. Ma nulla prova che egli abbia agito da solo, né che sia un isolato. Forse aveva dei complici, forse il suo gesto “isolato” è parte di un piano più ampio, che magari svanirà senza lasciar traccia, ma che non si può pregiudizialmente sottovalutare. C’è del metodo in questa follìa.
Franco Cardini, 27/7/2011