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Identità Europea
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Ecco le 70 bombe nucleari in Italia. di S. Maurizzi*

14 Luglio 2014
in Articoli

Venti ordigni americani nella base bresciana di Ghedi. Che i caccia della nostra Aeronautica possono sganciare in ogni momento. Altri 50 nei bunker Usa di Aviano. Una presenza che costa cara. Con rischi, problemi di spesa e accordi tenuti segreti

C’è un angolo della provincia di Brescia dove la Guerra Fredda non è mai finita. Negli hangar dell’aeroporto di Ghedi ci sono ancora oggi caccia italiani pronti al decollo per andare all’attacco con bombe nucleari sotto le ali. Incredibile? Non è la sola rivelazione sull’arsenale atomico attivo nel nostro Paese. Una ricerca della Fas, Federation of American Scientists, documenta come l’Italia custodisca il numero più alto di armi nucleari statunitensi schierate in Europa: 70 ordigni su un totale di 180. E siamo gli unici con due basi atomiche: quella dell’Aeronautica militare di Ghedi e quella statunitense di Aviano (Pordenone). Due primati che comportano spese pesanti a carico del governo di Roma: spese che, a 25 anni dalla fine della Guerra fredda e degli incubi nucleari, appaiono ingiustificabili.

Eppure le forze armate italiane sono fiere di essere al fianco della potenza Usa nella missione atomica, tanto da aver festeggiato da poco le “nozze d’oro” di questa alleanza: i 50 anni dell’arrivo delle testate nucleari a Ghedi. Un anniversario celebrato con tanto di torta alla panna con le bandierine e una targa commemorativa che loda queste armi terribili “per avere protetto le nazioni libere del mondo”.

Ufficialmente, questo arsenale in Italia non esiste: né il governo di Washington né quello di Roma hanno mai ammesso la loro presenza. E nella targa commemorativa appena inaugurata non si accenna neppure ad esse: si parla genericamente di “missione Nato”. Il riserbo che, però, circonda questi armamenti presenti sul suolo italiano è un classico segreto di Pulcinella. Che viene demolito dall’esperto americano di armamenti Hans Kristensen, direttore del “Nuclear Information Project” dell’organizzazione Federation of American Scientists con sede a Washington DC, che ha appena pubblicato un rigoroso studio sulle armi nucleari Usa presenti nella base di Ghedi.

Kristensen cita due informazioni tecniche che permettono di dimostrare la presenza di queste armi a Ghedi: «Uno dei più importanti segni rivelatori è la presenza del 704esimo Squadrone Munitions Support (Munss), un’unità della US Air Force che consta di circa 134 militari e che ha il compito di proteggere e mantenere operative le 20 bombe nucleari B-61 presenti nella base. Il Munss non sarebbe presente nella base se non ci fossero armi nucleari. Esistono solo quattro unità Munss nell’aviazione militare statunitense e sono dislocate nelle quattro basi in Europa dove le armi nucleari sono conservate per essere lanciate da aerei della nazione ospitante».

Il secondo segno rivelatore, spiega Kristensen, è la presenza di alcuni speciali veicoli Nato fotografati dai satelliti: in gergo si chiamano “Nato Weapons Maintenance Trucks” (WMTs), grandi camion militari equipaggiati di complesse tecnologie. «La Nato ha dodici di questi camion, che sono progettati in modo specifico per permettere di fare la manutenzione delle bombe nucleari sul posto, nelle basi in cui sono immagazzinate in Europa. Un’immagine satellitare, fornita da Digital Globe attraverso Google Earth, mostra uno di questi camion Wmt parcheggiato vicino gli alloggiamenti del 704esimo Squadrone Munss a Ghedi in data 12 marzo 2014. Un’immagine più vecchia del 28 settembre 2009, mostra due camion Wmt nella stessa posizione», scrive Kristenssen.

Le venti bombe di Ghedi sono di proprietà americana, custodite da militari statunitensi. Hans Kristensen spiega a “l’Espresso” che gli ordigni della base sono di due tipi: i B61-4 con potenze da 0.3 a 50 kiloton e i B61-3 con potenze da 0.3 a 170 kiloton, ovvero 11 volte la carica dell’atomica che distrusse Hiroshima nel 1945. Ma è previsto che queste armi devastanti vengano sganciate da cacciabombardieri Tornado italiani: i velivoli del Sesto Stormo. Un reparto celebre, i cui piloti vengono chiamati “I diavoli rossi”: sono stati i protagonisti delle campagne aeree in Iraq nel 1991, in Bosnia nel 1996, in Kosovo nel 1999 e due anni fa in Libia. Assieme alle missioni di bombardamento convenzionale, gli equipaggi vengono continuamente addestrati per l’eventualità di uno “strike nucleare”. E nel futuro sono destinati a proseguire questo doppio compito sugli F-35, che avranno la capacità di imbarcare gli ordigni nucleari.

Ma questa eredità della Guerra Fredda pone un triplice problema, che dopo cinquant’anni di silenzio dovrebbe finalmente venire affrontato dal Parlamento: le spese a carico dell’Italia per l’arsenale nucleare, la sua legittimità in base ai trattati internazionali e i pericoli per la popolazione.

 

RISCHIO ATOMICO

Esistono pericoli per la popolazione italiana legati alla presenza di queste armi nella basi di Ghedi e Aviano? Ovviamente tutta la materia è coperta da un ferreo segreto militare. Kristensen, però, non manca di ricordare uno studio del 1997 commissionato dalla stessa US Air Force che evidenziava il rischio di esplosione nucleare nel caso in cui un fulmine avesse colpito il deposito di un ordigno nella fase di smantellamento, ossia quando la testata viene smontata dal resto della bomba. Un’eventualità remota, ma che è stata presa in seria considerazione dal Pentagono. Probabilmente questo è uno dei motivi che hanno portato la Nato a pianificare una sostituzione graduale dei camion speciali Wmt con veicoli più avanzati, in gergo militare “Stmt”, che offrono anche una protezione maggiore dai fulmini. Dieci di questi Stmt sono pronti per le basi di Italia, Belgio, Olanda, Germania, Turchia, i cinque paesi in cui sono schierate tutte le armi nucleari americane presenti in Europa. La consegna dei camion Stmt è prevista per questo mese: costano un milione e mezzo di euro ciascuno.

 

LEGITTIMITÀ

Come fa notare l’esperto Hans Kristensen, la presenza di questi ordigni americani pronti all’uso nelle basi italiane pone numerosi quesiti. I nostri piloti si addestrano per essere sempre pronti a utilizzare le bombe nucleari, come previsto dal patto segreto con gli Usa. Ma l’Italia e gli Stati Uniti hanno firmato il Trattato di non proliferazione, che impone di “non ricevere armi nucleari o il controllo diretto o indiretto di esse da nessuno”. È vero che le armi nucleari sono arrivate a Ghedi nel 1963, in un periodo precedente al Trattato di non proliferazione. Oggi però questo accordo è una pietra fondante della comunità internazionale: come si può conciliare con quello che avviene a Ghedi?

 

SPESA PUBBLICA

Il problema dei costi, infine, è un altro grande punto dolente. Kristensen non fornisce cifre, ma scrive che l’Italia «si fa carico della presenza nella base di Ghedi del 704esimo Squadrone Munss, dell’aggiornamento delle misure di sicurezza necessarie per proteggere le armi, dell’addestramento dei piloti e del mantenimento degli aerei Tornado che devono attenersi a rigorose procedure di certificazione per essere idonei alle missioni nucleari. E inoltre ci si aspetta che il costo nella messa in sicurezza delle bombe B-61nelle basi europee aumenti più del doppio nei prossimi anni (fino a 154 milioni di dollari) per assicurare gli aumentati livelli di sicurezza richiesti dall’immagazzinamento delle armi nucleari americane». Tutti costi che, scrive Kristensen, sono sempre più difficili da giustificare, data la grave situazione finanziaria dell’Italia.

Lo studioso dà alcune misure per far capire l’incidenza della crisi economica nel ridimensionamento delle spese militari: le ore di volo annuali dell’Aeronautica sono scese da 150mila nel 1990 a 90mila nel 2010, l’addestramento è stato ridotto dell’80 percento tra il 2005 e il 2011. E altri tagli sono in arrivo. In queste condizioni, conclude lo studioso, sarebbe meglio che l’Italia mantenesse una forza nucleare solo se davvero le servisse. Ma abbiamo veramente bisogno delle bombe atomiche?

Nella targa commemorativa che celebra il 50esimo anniversario, le armi di Ghedi vengono celebrate, seppure senza menzionarle, per “aver protetto le nazioni libere del mondo” anche dopo la fine della Guerra fredda. «Questa, nel migliore dei casi è un’esagerazione», scrive Hans Kristensen, «è difficile, infatti trovare una qualche prova che le armi nucleari non strategiche schierate in Europa dopo la fine della Guerra fredda abbiano protetto una qualsiasi cosa o che la loro presenza sia in qualche modo rilevante. Oggi la più grande sfida sembra essere quella di proteggere queste armi e di avere i soldi per farlo».

Stefania Maurizzi

Si ringrazia L’Espresso (1 luglio 2014)

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