Un qualsiasi attento osservatore, una persona di spirito libero, un amante della verità, si troveranno immediatamente concordi nel rilevare che nell’Europa post-moderna vige una sorta di dittatura del pensiero unico, fatta di dogmi liberal-progressisti praticamente intoccabili.
Esistono infatti concetti, idee, modelli fatti passare come verità assolute ed indiscutibili, su cui nessuno deve poter aprir bocca. Su alcuni di questi, incombe la mannaia del reato d’opinione (quando non addirittura quello di “istigazione”), mentre, su altri, la semplice messa al bando dal mondo accademico, giornalistico, parlamentare.
Un tema su cui per esempio non si discute più, perché divenuto un dogma, è quello dell’obbligo scolastico.
Immaginiamo, infatti, una qualsiasi associazione, un politico, un giornale, un movimento di pensiero che ponga tra i propri obiettivi quello della cancellazione della scuola dell’obbligo.
Immediatamente si scatenerebbe il delirio mediatico, con levate di scudi da parte dei soliti benpensanti inorriditi da cotanta temerarietà: “si vuol tornare indietro” – si urlerebbe sdegnati – , “si attenta all’istruzione” – si sentenzierebbe, “si vogliono cancellare diritti acquisiti” – si finirebbe per concordare, al fine di mettere al bando una tale rivoluzionaria ipotesi.
Eppure, la confusione è lampante: una cosa infatti è l’obbligo, altra cosa, e ben diversa, è il diritto!
La verità è che non si vuol analizzare con coraggio ed obiettività un modello che, alla prova del nove, si è rilevato deleterio e controproducente.
Per rimanere solo all’Italia, le radici dell’obbligo scolastico si rinvengono nell’ideologia risorgimentale, con la sua carica sovversiva – di stampo illuministico-giacobino – atta a creare l’Uomo Nuovo cancellando le radici più vere delle genti italiche, ossia quelle cattoliche e popolari. Con la forzata unificazione italiana – che com’è storicamente dimostrato incrementò l’analfabetismo in molte zone del Paese che prima dell’unificazione erano invece molto più alfabetizzate[1] – una scuola di stato obbligatoria diventava quindi necessaria per strappare alle famiglie e ai corpi intermedi (in primis alla Chiesa), il diritto-dovere di educare ed istruire i giovani, al fine di propagandare un modello culturale unico imposto dallo Stato unitario, oltre a cancellare la storia – spesso gloriosa – degli stati pre-unitari.[2]
E non è un caso che tale concezione liberticida venga pienamente sviluppata durante il regime fascista, i cui intenti di creare un nuovo modello di italiano erano più che palesi e, quindi, realizzabili attraverso la scuola: per Mussolini, infatti, la riforma Gentile del 1924 è “la più fascista delle riforme”, sebbene sul suo impianto e contenuto, brilla comunque un tenore qualitativo alto e difficilmente contestabile. La visione ideologica del fascismo, però, si palesa in maniera più forte ed evidente analizzando la Carta della Scuola del 1939, elaborata dal Ministro Giuseppe Bottai al fine di creare, attraverso una riforma complessiva del sistema scolastico, una scuola obbligatoria fortemente di massa e rivolta a tutti.
Successivamente e in maniera del tutto coerente, quell’eredità giacobina che passando dal risorgimento aveva attraversato il fascismo, fu ripresa dalle culture social-comuniste, che fecero della scuola di stato il proprio centro di indottrinamento, anche grazie ai preziosi ed utili contributi che venivano dal gramscismo.
Ma con il diffondersi del modello consociativo, la scuola divenne un vero e proprio centro di collocamento, un validissimo strumento per piazzare amici e compagni ed estendere, cosi, la propria influenza politica e partitica. Ed è ovvio che più utenti frequentassero la scuola, più erano le possibilità di assunzione per maestri e professori.
Quindi l’idea di estendere sempre più l’obbligo scolastico, si da aumentare, per legge, gli iscritti e, di conseguenza, gli assunti, sebbene tale idea restasse comunque – prescindendo cioè da tatticismi elettorali – impregnata di un contenuto ideologico ben preciso. Parallelamente, l’eredità sessantottina dell’Università di massa, con ridicoli corsi di laurea in “scienze delle brioches”, e l’idiozia delle specializzazioni capziose – che sono l’esatto contrario di quanto il mondo antico aveva insegnato, ossia l’unità del sapere (che è il solo vero sapere) e non la sua parcellizzazione -, hanno fornito occasione per creare cattedre ad hoc, ossia finalizzate ai docenti, e non ai discenti.[3]
L’Università non è più, come in passato, frutto della sete di sapere, non si fonda più sulla domanda formativa, ma su un’assurda e rovesciata “offerta formativa”: lo studente diventa oggetto, e non più soggetto, mero consumatore di un prodotto deciso a monte da altri, siano essi i baroni, lo Stato, le lobby. E’ la morte dell’Università.
Le conseguenze più micidiali di tutto ciò, le hanno pagate la cultura, il sapere, ed il saper fare. Oltre alla libertà delle famiglie.
Infatti, davanti alla primissima obiezione che viene mossa ai (pochi coraggiosi) critici dell’obbligo scolastico, ossia che esso avrebbe prodotto l’alfabetizzazione delle masse – dato comunque storicamente discutibile – verrebbe da chiedere quanto realmente tutti i c.d. alfabetizzati siano in grado non tanto di “leggere e scrivere”, quanto di comprendere ciò che leggono e, eventualmente, scrivono. Posto che scrivere non è affatto cosa facile, e certamente non è arte per tutti, come non per tutti sono tutte le arti.
Bisognerebbe poi comunque chiedersi – e rispondere con obiettività – cosa insegni oggi la scuola, quanto ne sappia e cosa sappia uno studente che termina il percorso di studi obbligatorio, visto che, spesso, persino i laureati ne sanno poco quanto niente…
Basterebbe chiedere ad un ragazzino di terza media, o anche di scuola superiore, chi fossero Didone, Circe, Laoconte, cos’erano i consoli romani, o cosa racconti il mito della caverna di Platone per comprendere quanto lacunosa sia la preparazione scolastica su quelle basilari conoscenze “laiche” che sono la radice della nostra civiltà.
Per non parlare di grammatica e di sintassi italiana, lasciando perdere il latino che, almeno una volta, si insegnava durante le scuole medie ed era “masticato” da tutti grazie alla Santa Messa Tridentina… Insomma, un studente che deve utilizzare il suo tempo – in quanto obbligato da una legge dello Stato – per stare coercitivamente sui banchi di scuola, cosa impara? Se è solo questione di alfabeto e di conti, allora basterebbe un anno! O basterebbe la stessa famiglia ad insegnare l’ABC![4] Ma il resto? Perché non dedicare quel tempo ad apprendere realmente qualcosa?
Ecco che quindi vien fuori la verità: un tempo, quando la scuola non era obbligatoria e non c’era una legislazione bulimica su ogni aspetto del sociale, il dovere dell’istruzione era lasciato giustamente alla famiglie, che liberamente potevano scegliere come provvedervi e con quali ausili.
E soltanto quando è la famiglia a decidere e scegliere c’è libertà. Non quando è lo Stato ad imporre con la forza. Il ruolo dello Stato, infatti, dovrebbe essere un altro: quello di intervenire prontamente ed in via sussidiaria per garantire ad ogni livello e concretamente il diritto allo studio a coloro che vogliono veramente studiare.
Ciò, oltre a rappresentare la vera difesa del pluralismo e delle identità e ad incarnare il principio europeo di sussidiarietà, garantisce la formazione di una sapienza unica, perché peculiare e vissuta quotidianamente. Se oggi, del resto, un laureato è un disoccupato, e un diplomato non è in grado di fare nulla perché non sa fare nulla, quando non esisteva l’obbligo scolastico tutti erano in grado di saper fare qualcosa, e di saperla fare ad opera d’arte, con cognizione, esperienza, maestria. Si sapeva, e si sapeva fare. E non si era disoccupati con tanto di titolo accademico.
Anche perché si apprendeva con umiltà, e con la voglia di aumentare ogni giorno le proprie conoscenze, con la consapevolezza di doverle, poi, trasmettere ad altri.
Tutto il contrario di quanto produce materialmente la scuola dell’obbligo: gente scocciata, disinteressata, svogliata, che va a scuola non perché freme nell’apprendere ogni giorno qualcosa di nuovo, ma perché ci deve andare in quanto costretta, e perché ci vanno tutti!
Così si difende quindi il diritto allo studio? No: così si affossa semplicemente chi veramente vuole studiare, imparare, apprendere tramite i canali scolastici. Che non possono e non debbono avere alcun monopolio del sapere e dell’istruzione. Tutt’altro: essi devono essere parificati a tutti gli altri centri di crescita e di apprendimento, perché non sta allo Stato determinare i modelli e stabilire i canoni di conoscenza dei singoli.
Ecco che dunque, oggi, sarebbe opportuno almeno aprire un dibattito sull’istruzione in senso ampio e, quindi, anche sul modello dell’obbligo scolastico, per capire se ciò che interessa davvero sia la tutela del sapere, la difesa della libertà, le capacità e le competenze, oppure il numero dei diplomati e dei laureati, come se il numero fosse garanzia di qualità e di occupazione, e non, invece, condanna alla mediocrità e all’assenza di lavoro.
E’ però difficile che questo accada, per i motivi esposti in apertura, e perché non sembra esserci all’orizzonte una classe politica che abbia la forza/voglia di rompere gli schemi del politicamente corretto ed ingaggiare – com’è stato ad esempio per l’abolizione di quell’aberrazione che era la leva militare – una battaglia giusta e a difesa del sapere e del saper fare.
Con un ultima doverosa precisazione: sta però ai giovanissimi comprendere che distrutto l’artigianato con politiche assurde, eliminata di fatto l’agricoltura familiare, creata una scuola di massa completamente inutile, bisogna cercarsi canali di formazione liberi e di qualità, senza escludere, ma anzi auspicando, un ritorno ai mestieri, alla terra, alle arti, alla capacità di fare impresa, di cooperare e creare lavoro. Senza aspettare il famoso “posto” che non arriverà mai, se non nelle promesse elettorali del politicante di turno. Che ovviamente non saranno, perché non possono essere, mantenute.
[1] Si confrontino ad esempio i dati del Meridione borbonico nel 1840-1850 e di quello unitario del 1870-1880
[2] Cfr. Legge Casati del 1859, Legge Coppino del 1877, Legge Orlando del 1904 e Legge Daneo-Credaro del 1911 e dibattito parlamentare delle stesse, così come lavori preparatori.
[3] Il discorso delle specializzazioni create ad hoc potrebbe estendersi a quanto sta accadendo ora per la diffusione dei Master post-laurea…
[4] Tra la varie riforme susseguitesi, rileva storicamente il Decreto legislativo 16 aprile 1994, numero 297, che al comma 2 dell’art. 111 stabiliva testualmente che “I genitori dell’obbligato o chi ne fa le veci che intendano provvedere privatamente o direttamente all’istruzione dell’obbligato devono dimostrare di averne la capacità tecnica od economica e darne comunicazione anno per anno alla competente autorità”. La disciplina è rimasta però di difficilissima attuazione, fermo restando che nell’impianto normativo lo Stato continuava ad avere il monopolio decisionale, vagliando, di fatto, una non ben definita “capacità tecnica” dei genitori