Tutti quelli che contano, governanti, politici, giornalisti, conduttori televisivi, insistono molto sul fatto che quelle di fine maggio sono elezioni per l’Europa, cui occorre, quindi, partecipare in chiave europea. È vero e, pur se si tratta spesso di propaganda interessata (oltre tutti i messaggi televisivi promossi dal governo, tutti schierati a favore dell’Europa quale oggi è, cioè dell’attuale assetto Ue, violano la par condicio ai danni dei partiti che l’Europa vogliono invece cambiare), giova sperare che gli italiani se ne convincano e perdano la cattiva abitudine di considerare tutte le consultazioni elettorali come l’occasione di manifestare fedeltà ideologica al proprio partito.
Le elezioni europee sono molto diverse da quelle nazionali, ancor più di quanto queste ultime differiscono (o dovrebbero differire) da quelle locali.
Il ragionamento vale soprattutto quella larghissima maggioranza di italiani che, secondo tutti i sondaggi, non sono per nulla soddisfatti della Ue e delle sue politiche economiche e finanziarie. Per loro le ormai vicinissime consultazioni sono l’imperdibile e forse ultima occasione per dare voce e contenuto concreto al loro dissenso a condizione che al momento del voto sappiano determinarsi in base a motivazioni diverse dalla ideologia politica e dalla fedeltà al partito (o – non farlo sarebbe il peggio del peggio – dalla simpatia o antipatia per Renzi e Berlusconi).
L’Unione europea soffre di un altissimo deficit di democrazia (su questo tutti sono d’accordo), il Parlamento europeo conta pochissimo e il risultato delle elezioni non influirà direttamente sugli organi dai quali dipende la politica dell’Europa. Gli elettori possono soltanto mandare un segnale del loro scontento. Per avere effetto è, quindi, indispensabile che questo segnale sia tanto forte da allarmare gli eurocrati sul loro futuro.
Alcuni sono convinti che il modo migliore per fare conoscere la propria insoddisfazione per la politica europea sia l’astensione. Fra gli altri e meglio di altri Ida Magli scrive che “votare non serve” ed ”è indispensabile che almeno quei gruppi di cittadini che criticano le istituzioni europee, che vogliono la riappropriazione della sovranità sulla moneta e su tutto l’ambito che riguarda la Nazione e il suo territorio non vadano a votare alle elezioni europee e convincano il maggior numero possibile di cittadini a non andarvi”.
L’intento è buono, ma cattivo lo strumento suggerito. Dal momento che in Italia un’astensione del 40% è ormai considerata fisiologica, il disamore degli elettori per divenire significativo (e non è detto che anche in questo caso a Bruxelles se ne mostrerebbero preoccupati) dovrebbe raggiungere e superare il 60%, un risultato oggi assolutamente impossibile da conseguire.
La strada da seguire per chi vuole mandare un segnale forte all’Europa, è invece quella del voto ai cosiddetti partiti populisti (fregandosene se l’establishment considera “populismo” una brutta parola), perché l’unico modo per fare intendere ragione agli eurocrati è la presenza in Parlamento di un gruppo critico il più folto, determinato e, visti gli scarsi poteri, rumoroso possibile. È vero, fra i cittadini che criticano l’Ue vi è diversità di opinioni e così di programmi fra i movimenti populisti. C’è chi vuole uscire subito dall’euro e chi invece vuole conservare la moneta unica. Tuttavia la distinzione è importante in astratto, ma nel concreto anche l’eventuale successo dei partiti “no euro” certamente non ne comporterà la sparizione in tempi brevi. Nessun problema poi per gli elettori ancora legati a schemi ideologici, perché fra i movimenti e i partiti critici dell’Ue ve ne sono di destra, di centro e di sinistra e anche che rifiutano queste distinzioni. Si può, quindi, manifestare il dissenso e l’esigenza di radicali cambiamenti, senza fare violenza alle proprie convinzioni.
Francesco Mario Agnoli