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Ancora attorno a Francesco d’Assisi. di F. Cardini.

13 Ottobre 2014
in Articoli

Si torna a parlare di Francesco d’Assisi. Sempre: non solo perché il 4 ottobre è la festa del suo Dies natalis. La sua costante e continua presenza dipende dal fatto che la Chiesa ha bisogno di riallacciarsi a quello tra gli uomini che meglio ha interpretato il cristianesimo come imitazione del Cristo, sfuggendo al mito disperante e sospetto di un impossibile “ritorno alle origini” e al tempo stesso tornando a coniugare la disciplina e l’obbedienza con la libertà e l’amore per gli “ultimi”?  E’ stato spesso notato come il Povero d’Assisi sia “un santo per tutte le stagioni”, che piace ai cattolici ma anche agli ortodossi, ai protestanti, agli ebrei, ai musulmani e persino agli agnostici e agli atei. E, spigolando tra le fonti che lo riguardano e gli studi che gli sono stati dedicati – biblioteche intere -, è in apparenza facile per chiunque ritagliarsi il “suo” Francesco, quello che gli va meglio.  Il rivoluzionario o il cavaliere,  il mistico che si rifugia in Dio o l’esteta sentimentale che s’innamora della natura, il fedelissimo del papa che si fa ultimo fra tutti e per questo viene esaltato o l’inquieto  semiribelle  che per certi tratti della sua esistenza sembra quasi avvicinarsi agli eretici catari e che contesta le crociate volute dalla Santa Sede recandosi pacificamente a parlare col sultano? In passato, ci sono stati anche un Francesco “socialista” (al pari del Cristo, definito “il primo socialista”)  e un Francesco “fascista” (“il più santo degli italiani, il più italiano dei santi”).  Infine, tra la seconda metà del secolo scorso e questo, abbiamo ovviamente avuto il Francesco ecologista, il Francesco animalista, il Francesco “Figlio dei Fiori” e il Francesco new age.

Certo, non piacere a nessuno è una gran condanna. Ma ohimè forse piacere a tutti è ancora peggio. In questo modo i connotati del “vero” Francesco si frantumano e si polverizzano: e si dispera di poterli ricomporre per giungere a una comprensione effettiva di chi egli sia stato. Nemmeno gli specialisti, i seri studiosi, ci aiutano granché in questo. Il loro Francesco è diventato un complesso problema esegetico: alcuni lo hanno “ricostruito” proponendoci un patchwork delle fonti tutte “autentiche”, senza dubbio, ma diverse, eterogenee e contraddittorie fra loro; altri hanno finito col rifugiarsi in una sorta d’ipercritico pirronismo,  dichiarando che non si possono contaminare tra loro documenti diversi e che ogni autore coevo che di lui ha parlato  ci ha fornito di lui un’immagine sempre diversa, irriconducibile  alle altre.

Chiudiamo l’argomento, dunque, e non parliamone più. In fondo, attenzione, di Francesco la Chiesa cattolica ha fatto sostanzialmente a meno  per lunghi secoli. Dopo il concilio di Trento si decise di tornare alla primitiva “normalizzazione” del Santo, proposta negli Anni Sessanta del Duecento dal ministro generale minorita e poi cardinale Bonaventura da Bagnoregio che ordinò la distruzione di tutte le prevedenti biografie (per fortuna non riuscì però a farsi ubbidire)  e redasse quella Legenda maior da allora divenuta canonica e alla quale fedelmente s’ispirò Giotto per il ciclo di affreschi nella basilica superiore di Assisi. Eppure, come ha notato Massimo Cacciari in un saggio recente, quel Francesco tutto disciplina e miracoli non somiglia per nulla al Francesco “sposo di madonna Povertà” descritto dall’Alighieri nell’XI del Paradiso. Ma su di lui, la Chiesa del tardo Duecento decise che si era parlato e polemizzato fin troppo: e da allora in poi, sotto pena di sanzioni severi, Francesco sarebbe stato ufficialmente considerato solo il fondatore dell’Ordine dei Minori, nelle sue varie famiglie “conventuale”, “minore osservante” e “cappuccina”, cui di recente si è aggiunta quella “dell’Immacolata”.

Fu solo alla fine dell’Ottocento che uno studioso francese protestante, Paul Sabatier,  allievo di Rénan, rimise in discussione quell’immagine. Da allora si cercò di recuperare l’autentico Francesco, e si cadde in un oceano di proposte, di discussioni e di polemiche. Ci si mise anche il cinema, tra Rossellini e la Cavani.

E se ricominciassimo allora da zero? Per farlo si potrebbe ripartire non già dai pochi documenti primari che a suo proposito ci sono rimasti, non dalla rilettura e dal rinnovato confronto tra le diverse fonti agiografiche più antiche, bensì proprio da lui: dagli scritti che ci ha lasciato, qualcuno anche autografo.

Ma anche qui l’impresa è disperante. Vorremmo tanto sapere come scriveva, Francesco. Certo, di lui ci resta qualche prova autografa: ma nella stragrande maggioranza i “suoi scritti” sono in realtà dettati a un qualche segretario (“Frate Leone, scrivi…”), e quelli latini sono frutto di traduzione. Un po’ di latino doveva saperlo, se non altro quello delle Scritture: ma non c’è da credere che si arrischiasse direttamente a scriverlo. E perché avrebbe dovuto, poi, perizia grafica e condizioni di salute a parte? Tra XII e XIII secolo lo scrivere era considerato una funzione servile o un’attività altamente specialistica, o  entrambe le cose insieme. Ma Francesco non era né un amanuense, né uno studioso, né un notaio, né un mercante, tutte categorie che in un modo o nell’altro sono tenute a scrivere direttamente. Si faceva aiutare: anche per la gramatica, la lingua latina: ma da chi, in che modo, aggiungendo o togliendo o modificando che cosa?

Gli scritti fondamentali e più noti di Francesco sono la Chartula nota come “Benedizione a frate Leone”, sicuramente autografa; il Cantico delle Creature (detto anche di Frate Sole), in volgare umbro; le due Regole, la  non bullata (cioè non approvata dal papa) del 1221 e la  bullata del ’23, che – per quanto sia arduo esprimersi su materia così delicata – esprimono la prima il suo effettivo progetto, la seconda un faticoso compromesso che a mio (e non solo a mio) avviso non dovette lasciarlo soddisfatto, ma al quale si sottomise “per santa obbedienza”; i due Testamenti in latino, il “minore” senese e il “maggiore” assisano.  Questi sono i testi fondamentali, dai quali bisogna partire anche per costruire un racconto biografico – se non addirittura “autobiografico” del Povero di Assisi.

Oltre agli scritti che ci sembrano i più importanti e sotto molti aspetti quelli  fondamentali, ci ha lasciato però altre, e non poche, testimonianze dirette del suo pensiero, del suo cuore e della sua volontà: la Regola  di vita negli eremi; due “biglietti” destinati a Chiara che essa ha conservato nel capitolo VI della sua Regola (ma gliene aveva inviati altri);  ventotto capitoletti sparsi noti come Ammonizioni, una Lettera ai fedeli che possediamo in due redazioni; una Lettera a tutti i chierici sul  tema eucaristico; una Lettera ai reggitori di popoli; due indirizzate ai custodi dei frati; una rivolta a tutto l’Ordine;  una infine – forse la più intensa e toccante – rivolta ad quemdam ministrum, rivolta a un dignitario dell’ordine che stanco gli si era rivolto chiedendogli di potersi ritirare in un eremo. Non tutte queste lettere sono facilmente databili, né sempre si possono identificare con certezza i destinatari.

Abbiamo poi una serie di Laudi (oltre al celebre Cantico di Frate Sole, o delle creature), conservate in vari codici il più famoso dei quali è senza dubbio alcuno il 338 della Biblioteca Comunale di Assisi; e ancora alcune preghiere e una serie di “opuscoli dettati” nonché un Ufficio della Passione del Signore . Si tende un po’ troppo spesso a ignorare queste dirette testimonianze della spiritualità del Santo, salvo poi attribuirgli sentimenti e pensieri arbitrariamente ricostruiti o immaginati. Una più intima biografia di Francesco dovrebbe partire da un’analisi attenta, spregiudicata e puntuale di questi scritti.

E finalmente, gli studiosi attuali. La storia è revisione continua, riconsiderazione incessante del passato alla luce delle fonti che ce ne restano e dei metodi usati per interrogarle che variano molto di generazione in generazione. La storia non offre certezze definitive; fornisce solo discussioni di prove e d’indizi e proposte di ricostruzione. Limitiamoci agli ultimi anni e ad alcune opere fondamentali di cosiddetta “alta divulgazione”, senza entrare nel campo minato degli specialisti e delle loro eterne, dottissime baruffe.

Quando nel 1996, uscì il San Luigi di Jacques Le Goff, si discusse molto sulla scelta del genere biografico, che sembrava tradire gli intenti programmatici della “scuola delle Annales” impegnata nella conquista di più vasti spazi per la storia sociale e dalla quale il grande medievista stesso proveniva. Le Goff uscì dall’impasse grazie alla felice definizione dell’individuo “come oggetto globalizzante che permette, a partire dal soggetto studiato, di illuminare la società che lo circonda”.

A distanza di circa tre lustri da quel grande tentativo di biografia esaustiva di un santo re, ch’era anche terziario francescano, il tentativo di riaffrontare di nuovo la biografia di Francesco – che nel frattempo aveva visto cimentarsi tanti eccellenti studiosi, da Raoul Manselli a Chiara Frugoni a Grado G. Merlo a Jacques Dalarun allo stesso Le Goff – è stato affrontato anche da un altro studioso francese, André Vauchez.  Egli non ha, almeno in apparenza, seguito il suggerimento di Le Goff, che pure è stato suo maestro, decide di non porsi il problema, preferendo semmai partire dall’assunto di Marc Bloch per il quale “la storia è tutta sociale per definizione”. Tuttavia, a un’analisi attenta, il Francesco d’Assisi di Vauchez risulta davvero, legoffianamente, appunto “un soggetto che illumina la società che lo circonda”: lo studioso è molto attento ad inserirlo nella società del suo tempo e a metterlo in dialogo con essa, soprattutto inquadrandolo nel territorio fisico (ricostruito in dettaglio) in cui si svolse la vicenda sanfrancescana. Come Vauchez dichiara nell’Introduzione del libro, Francesco è un santo che più di altri intrattiene un legame indissolubile con un’area geografica precisa e si lega indissolubilmente alla sua città natale.

Grazie a questo libro  risulta chiaro che, nonostante la sua enorme popolarità,  la figura di Francesco  ha conosciuto una parabola tutt’altro che lineare. In realtà,  dopo una canonizzazione pressoché immediata (morto nel 1226, venne canonizzato appena due anni dopo), la sua fama di santità fu  presto oscurata dal gran numero di conflitti nati all’interno all’Ordine che egli aveva fondato. La sua stessa vicenda agiografica, qui analizzata con particolare cura,  contribuì piuttosto all’eclisse  della sua figura che  non alla sua affermazione. Ci si trova in effetti di fronte a  una produzione agiografica di varia committenza: che, come spesso accade, finiva per ritagliare un’immagine di Francesco sulla  base di specifici interessi politici anziché su quella della verità storica o sulla promozione della sua spiritualità. Il suo antico protettore, il cardinale Ugolino d’Ostia, divenuto papa  Gregorio IX scelse proprio l’esempio di Francesco per contrastare i danni arrecati alla credibilità della Chiesa dai movimenti ereticali, mentre Bonaventura di Bagnoregio, cardinale e ministro generale, tentò a più riprese di sedare i dissidi interni all’Ordine proponendo con la sua biografia, la Legenda maior, un’immagine di Francesco che Vauchez definisce “disumanizzata ed inimitabile”.

Uno dei pregi di questa biografia risiede nel fatto che, nonostante l’autore metta in guardia il lettore sull’impossibilità di arrivare a cogliere “il vero” Francesco, il libro sembra più di altri avvicinarsi a tale inattingibile traguardo attraverso un lavoro scrupoloso, compiuto da un professionista che ha saputo decostruire pazientemente tutte le incrostazioni e i clichés elaborati su di lui in circa otto  secoli di storia. Da questo punto di vista il lavoro è in realtà una bella lezione di metodo storico, che convince e colpisce per l’onestà intellettuale, l’equilibrio e l’assenza di un qualunque carattere ideologico. Ciò dimostra come lo storico possa in effetti arrivare a fornire una figura “reale” del suo personaggio, proprio come un buon detective può arrivare a ricostruire la scena del delitto: si tratta in fondo solo di metodo.

Peraltro, Vauchez non si limita a ricostruire quella che secondo lui può essere una plausibile figura di Francesco, la “sua”. Egli intende altresì rispettare il lettore fornendogli gli strumenti necessari a un giudizio che potrebbe arrivare anche a conclusioni molto lontane rispetto a quelle da lui proposte, informandolo sullo status quaestionis della discussione storica sulle fonti. Le Goff, che aveva anch’esso affrontato il problema delle fonti nel suo lavoro su San Luigi, era arrivato ad una teoria “dei modelli” che tanto più informano il nostro oggetto di studio, tanto più ci allontanano da esso. L’intento di Vauchez è invece quello di tradurre in un prodotto accessibile, proprio la “malavventura” (espressione usata da un altro studioso francese, Jacques Dalarun, riguardo all’operazione di Bonaventura) storiografica del santo di Assisi, offrendo in sintesi la ricostruzione di almeno trent’anni di dibattiti e disaccordi che hanno animato la discussione sulle fonti francescane. Com’egli stesso afferma nelle note conclusive al libro, il suo intendimento  è appunto consegnare al pubblico il frutto dei progressi compiuti sulla conoscenza della vicenda francescana grazie agli ultimi trent’anni di studi e polemiche. Ma con ciò gli riesce appunto – per quanto non lo  dichiari – a far uscire la critica francescana dall’asfittico cerchio nella quale essa stessa si è chiusa rendendo ancora una volta  Francesco inaccessibile se non ai pochi addetti ai lavori. In ultima analisi,  Vauchez vuole restituire l’eredità di Francesco al grande pubblico, fornendogli però gli strumenti per discernere e pronunciarsi.

E si sarebbe tentati di affermare che l’intento di Vauchez ha trovato compimento proprio nel marzo del 2013, allorché quel Santo che mai aveva accettato dalla Chiesa onori e funzioni elevate, che mai aveva neppure osato di ascendere al sacerdozio limitandosi al diaconato, ha visto il suo nome ripreso addirittura da un papa: il pontefice inattesamente uscito da quella Compagnia di Gesù dalla quale, si diceva, mai sarebbe stato estratto un capo della Chiesa; la Compagnia di Gesù che nei secoli è stata spesso rivale dell’Ordine dei Minori, ma il fondatore della quale era al Povero di Assisi particolarmente devoto.

Il vescovo proveniente “dalla fine del mondo”, il cardinal primate di un paese devastato dalla memoria della guerra civile e della dittatura militare, dalla discordia interna, dalla crisi economica, dal montare delle sètte protestanti, ha rivendicato un nome che richiama all’alter Christus, all’”Angelo del Sesto Sigillo”, al paradossale protagonista dell’incontro impossibile e perfetto tra obbedienza e povertà.

Il cardinal Bergoglio era noto, come del resto papa Ratzinger, per non essere affatto un “progressista”. La sua elezione, d’altronde, significava che i padri del Sacro Collegio confidavano nella sua saggezza e nella sua energia per guidare la Chiesa in una crisi forse senza precedenti. Il punto è che il simbolo scelto dal nuovo pontefice per risanare e rinnovare la Chiesa sta racchiuso in un nome che è un programma: Francesco. Ma programma di che?

Francesco d’Assisi fu protagonista di una precisa proposta cristiana: l’imitazione del Cristo povero e nudo sulla croce. Perciò egli respinse ogni forma di potenza e di potere: e la povertà fu il segno di tale rifiuto, paradossale in un XIII secolo che fu quello dell’apice della ricchezza raggiunta dall’Occidente e simbolo della quale fu il fiorino d’oro. La testimonianza di Francesco fu un “segno di contraddizione” rispetto al suo tempo, eppure la chiesa ne fu salvata in quanto si dimostrò – contro la violenta propaganda ereticale – che anche al suo interno di poteva vivere poveramente.  Al tempo stesso l’Occidente prosperò proprio grazie a quella ricchezza che Francesco aveva rifiutato: e fu proprio l’Ordine minoritico che, con personaggi come Bernardino da Siena, ne legittimò dal punto di vista religioso l’uso. Contraddizione?

Per nulla. Francesco non era Lenin. Egli non condannava la ricchezza né pretendeva che i privati se ne spogliassero: si limitava a respingerla per quanto riguardava lui e i suoi diretti seguaci in quanto ostacolo al loro cammino d’imitazione della povertà del Cristo. Ma si era nel XIII secolo, all’inizio della Modernità: la ricchezza, per quanto importante, non era ancora valore né primario né totalizzante. E il papato, se aspirava all’egemonia sulla società cristiana del tempo, non poteva dal canto suo ignorare quello strumento.

Oggi, giunti alla fine di quel cammino della Modernità che è stato itinerario verso la liberazione dell’individuo e il primato dell’economia, appare viceversa palese che il danaro, selvaggiamente desiderato e ingiustamente distribuito, è divenuto una prigione all’interno della quale il genere umano si dibatte senza speranza alcuna. Al tempo di Francesco, quando la ricchezza era solo una componente della vita sociale e la Chiesa ne appariva la suprema garante e inquadratrice, il personale rifiuto di Francesco poteva armonizzarsi con altre e differenti strade. Oggi, la ricchezza associata all’ingiustizia domina un mondo nel quale la Chiesa non  è più  egemone. Papa Francesco può e deve quindi denunziare la pericolosità e la disumanità di quello strumento, divenuto tirannico. La  Chiesa del XIII secolo poteva essere dei ricchi e dei poveri, nella carità e nella solidarietà. La società del XXI secolo, nella quale la Chiesa è emarginata mentre carità e solidarietà sono venute meno, ha bisogno di stare soltanto dalla parte dei popoli. Ma il peso dei compromessi accettati nei secoli è enorme, quello della complessità della società presente più pesante ancora. Questo è il compito immane che aspetta questo prete argentino d’origine italiana che non solo ha personalmente scelto gli “ultimi”, ma che si è impegnato a schierare tutta la Chiesa di Roma al loro fianco. Gradualmente, senza dubbio: eppure, senza se e senza ma.

Proprio negli ultimi tempi, nelle parole e negli scritti più recenti, il profondo francescanesimo di papa Bergoglio si è trovato ad affrontare  proprio un tema francescano per eccellenza, il rapporto con la natura, il Creato. Lo ha fatto in termini rigorosamente ispirati, al tempo stesso, al Genesi e al Cantico delle creature. Il testo biblico è chiaro, per quanto le traduzioni lo abbiano spesso frainteso e distorto: l’uomo non è affatto il “padrone assoluto” del mondo e delle cose, non può disporne a suo piacimento secondo quello che è potuto sembrare alla luce del triste assioma cartesiano che sta inciso sul portone d’ingresso della Modernità. L’uomo è custode delle cose e delle creature del mondo, che può sottoporre alla sua volontà e delle quali può fare anche uso, ma di cui deve rispondere. L’ambiente lo riguarda ed egli ne è responsabile, non gli appartiene. L’inquinamento delle terre, delle acque e dei cieli, i gas tossici, i rifiuti che inquinano l’humus e le falde acquifere, le isole-continente di materiale plastico grandi come intere regioni che si stanno formando in alcune aree degli oceani, sono altrettante infamie che ci accusano, esiti di un degrado e di una desolazione che gridano vendetta al cospetto di Dio. Anche di tutto ciò dobbiamo rispondere. Questo indica papa Bergoglio quando accusa con coraggio e chiarezza l’“economia disumana”; questo vuol dirci quando, a proposito delle guerre attuali nel Vicino Oriente, ancor prima dell’infamia dei “tagliatori di teste” jihadisti denunzia fabbricatori e trafficanti d’armi, veri e propri mercanti di morte.

Ma frate Francesco non è mai stato un pacifista: egli era pacificus, portatore e facitore di pace; e, prima che per amore dell’uomo, per amore di Dio, così come ha dimostrato un altro grande studioso,  Claudio Leonardi. Francesco non è un umanitario immanentista, è un uomo di Dio. Ma la Modernità, distruggendo la Cristianità, ha anche ridotto la possibilità di vivere cristianamente secondo molteplici vie. Questo c’insegna Bergoglio, con il suo modello sanfrancescano: il grande problema di chi oggi vuol continuare a dirsi cristiano è arrivare al Cristo attraverso la sequela indicata dal Povero d’Assisi. Ciò equivale però a tradurre il càrisma francescano in termini di istituzione. Fra Tre e Quattrocento, il minoritismo fu all’avanguardia nel consentire lo sviluppo di un capitalismo cristiano. Il “primato dell’economia” e il turbocapitalismo moderni hanno azzerato questa possibilità: oggi il cristianesimo richiede al mondo un’inversione di tendenza, un drastico e rivoluzionario ritorno alle pratiche comunitarie, il rifiuto dell’individualismo, la sostituzione del profitto con la solidarietà. Che un papa del XXI secolo si denomini Francesco ci conduce dritti al Tempo della Profezia: il Povero d’Assisi fu veramente l’Angelo del Sesto Sigillo, e l’era che noi viviamo appartiene agli Éschata.

Franco Cardini

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