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Álvar Núñez, il naufrago “conquistador” . di Nicolò Dal Grande

14 Novembre 2012
in Articoli, Rassegna Stampa

Tra le figure che hanno contribuito a scrivere la storia d’Europa spiccano santi e imperatori; uomini d’armi e uomini di fede; artisti e costruttori; poeti e filosofi. Ma non solo. Nel tempio dei “grandi d’Europa” si distinguono i viaggiatori e gli scopritori di nuove terre e nuovi orizzonti. Chi non conosce le straordinarie vite dei vari Marco Polo, Cristoforo Colombo, Vasco de Gama e via discorrendo. Al tempo stesso uomini e avventurieri, spinti talvolta da diversissime ragioni, ebbero tutti una cosa in comune: la passione per l’ignoto e il coraggio di affrontarlo. Uomini che dilatarono i confini d’Europa, esportandone tradizione, valori e cultura, contribuendo a creare “un’Europa al di fuori dell’Europa”. In questa categoria rientrano i celeberrimi “conquistadores”.

I libri di storia e i manuali su cui abbiamo studiato e ci siamo formati, sovente descrivono questi uomini alla stregua di avventurieri in cerca di fortuna e prestigio. Ed indubbiamente fu così. Nobili decaduti,  combattenti di ventura, talvolta vagabondi senza una ragione di vita; figure che non esitarono a lasciare dietro le proprie spalle la loro vita in cerca di una migliore. La storia ne sottolinea i successi, le grandiose scoperte, ma soprattutto ne evidenzia gli eccessi. Balzano alla memoria lo sterminio delle civiltà precolombiane, dagli Aztechi agli Incas, per mano dei vari Cortés e Pizarro; si rammentano le atrocità compiute in nome della fede o per semplice disprezzo della vita di chi allora non era considerato umano ma alla stregua di animali. Celebre al riguardo il resoconto del frate Bartolomeo De Las Casas.

Rileggendo e innoltrandomi nella storia della conquista del “Nuovo Mondo”, mi posi sempre una domanda: furono davvero tutti avventurieri senza pietà? Oppure vi furono altre storie celate e lasciate cadere nel dimenticatoio, oscurate dal mito della “Leggenda Nera” che adornò la storia della duplice monarchia castigliana e aragonese – spagnola nel titolo solo dal 1715 -, elevata dalla propaganda illuminista a verità incontestabile dal XVIII secolo, e che solo da poco la storiografia ha iniziato a rivalutare. Di qui la riscoperta di una delle figure più affascinanti dell’universo dei conquistadores, oggi non tra le più note, ma non per questo meno importante: Álvar Núñez detto “Cabeza de Vaca”.

Álvar Núñez nasce a Jerez de La Frontera attorno al biennio 1488-1490;  sono gli anni dell’ascesa della Monarchia degli Asburgo; delle infinite guerre con la Francia dei Valois e con l’oriente ottomano; dell’ormai prossima frattura religiosa con la Riforma protestante . Ma è anche l’età delle  scoperte geografiche e dell’Impero “su cui non tramonta mai il sole”; il tempo delle grandi esplorazioni nel “nuovo mondo” e dei conquistadores. É il mondo di Álvar.

Figlio di Francisco de Vera e di Doña Teresa “Cabeza de Vaca”, figlia a sua volta del noto conquistatore delle Canarie – strappate ai portoghesi dopo una dura guerra durata dal 1464 al 1496 -, Pedro de Vera; è dal nonno che Álvar eredita il titolo/soprannome di “Cabeza de Vaca” – testa di vacca, toro -, dovuto al curioso stratagemma di segnalare il punto dove attaccare alle forze castigliane, durante una fase della guerra contro i mori, segnato con un teschio bovino.

Educato sin dai primi anni nelle arti belliche, è giovanissimo quando viene inviato in Italia tra le fila della Lega Santa, allora contrapposta al Regno di Francia durante le cruente “Guerre d’Italia” (1494-1530), partecipando alla sanguinosa battaglia di Ravenna (1512). Successivamente sarà inviato in Castiglia, dove dal1520 divampava la rivolta dei comuneros – gli abitanti dei comuni castigliani – contro la politica fiscale adottata dal nuovo sovrano del Regno, Carlo I d’Asburgo – il futuro imperatore Carlo V -, combattendo nella decisiva vittoria di Villalar (1521) che pose fine al tumulto.

Le guerre avevano messo in luce Álvar, divenuto uno degli uomini di fiducia dell’imperatore Carlo V. Tenuto in grande considerazione negli ambienti di corte, nel 1527  “Cabeza de Vaca”, non ancora trentenne, si aggrega in qualità di tesoriere alla spedizione, diretta verso la Florida, del conquistador Pánfilo de Narváez (1470-1528), noto più per la sconfitta patita contro Cortés (1485-1547) – in una sorta di micro guerra tra il più noto conquistador e il governatore di Cuba, Velásquez (1465-1524) – che per contributo all’esplorazione e alla conquista del continente centro-americano – benchè partecipasse alla presa della Giamaica e di Cuba – e mal visto dallo stesso Carlo V.

La spedizione, inaugurata il 7 giugno 1527, si rivela un assoluto disastro. Tra naufragi e diserzioni, il numero degli uomini effettivi si riduce progressivamente; al momento dello sbarco, avvenuto nei pressi del Río de las Palmas, dei settecento componenti iniziali non ne restano che appena quattrocento. Nel Settembre del 1528, abbandonata ogni speranza di scoprire giacimenti auriferi, braccata dagli indigeni e priva delle proprie navi – distrutte da una tempesta- la spedizione di Narváez sbanda e si scompiglia; lo stesso conquistador perisce annegato per l’affondamento della propria zattera.

I pochi superstiti, tra cui  Álvar, iniziano una vera e propria odissea per raggiungere il Messico, l’allora Vicereame della Nuova Spagna, ritenuto non lontano dal punto del naufragio ma in realtà distante più di duemila miglia. Il viaggio si rivelò durissimo; decimati da febbri e varie epidemie, i conquistadores cadono uno dopo l’altro lungo la strada; inoltre gli indigeni, dopo un’iniziale tolleranza, si dimostrano successivamente ostili a causa del comportamento degli spagnoli che, stando alle fonti, sembra si siano abbandonati in alcuni casi al cannibalismo; molti cadono nelle imboscate, altri vengono catturati: è la sorte di Álvar.

Sono mesi di dure privazioni e umiliazioni; è in questa fase che l’andaluso stringe un forte legame con alcuni dei suoi compagni, gli unici che riusciranno a tornare vivi con lui; questi sono Alonso del Castillo Maldonado, Andrés Dorantes de Carranza e un giovane berbero schiavo di quest’ultimo e a lui molto legato, Estebanico, celebre per esser stato la prima persona nata in Africa a mettere il piede nel territorio che oggi conosciamo come Stati Uniti, divenendo in seguito egli stesso un esploratore del nuovo mondo. Il ruolo di Estebanico sarà cruciale; è grazie alle sue mediazioni con gli indigeni se “Cabeza de Vaca” e i suoi riusciranno a fuggire in direzione della Nuova Spagna.

Il viaggio dovette sembrare interminabile; il 7 novembre del 1528 la compagnia di Álvar, ormai ridotta a un’ottantina di uomini – tutti destinati a perire – raggiunge una regione sino allora mai esplorata da un europeo: l’odierno Texas. Da lì il gruppo superstite s’inoltra nel deserto di Sonora, uno dei più estesi  e torridi del Centro-America, che, una volta attraversata la lunga distesa di sabbia e cactus, condurrà Álvar sulle sponde dell’oceano Pacifico. Con i suoi compagni di avventura, diventa il primo europeo a compiere via terra la traversata degli odierni Stati Uniti da una costa all’altra, dall’Atlantico al Pacifico.

Un viaggio epocale, durante il quale Álvar lentamente matura una nuova visione del mondo; i patimenti sofferti, le privazioni, la fame e la sete sofferte lo cambiano. Ma in lui muta anche la visione nei confronti degli indigeni; durante anni trascorsi tra la prigionia e il girovagare tra le lande texane e dell’Arizona, concepisce i nativi americani non come un qualcosa di diverso, ma come esseri umani, interagendo con loro non dall’alto di un pregiudizio di superiorità, ma considerandosi sullo stesso piano. Numerosi autoctoni si uniscono così al suo gruppo, aiutandolo a trovare la via per la Nuova Spagna, attirati dalla fama di “guaritore” che inizia a circondare la sua figura; questa sorta di “magia” non sono altro che le cure mediche praticate dal conquistador verso chi ne necessitasse; è al “Cabeza de Vaca” che si attribuisce infatti la prima operazione chirurgica sul futuro suolo statunitense.

Dopo otto anni eterni, Álvar s’imbatte infine in una spedizione spagnola, guidata da Diego de Alcarez, in cerca di schiavi. L’incontro con i compatrioti è ruvido; il conquistador, rifiutato di porre in catene gli indigeni che lo hanno accompagnato, viene posto agli arresti e rimpatriato in Spagna (1537).

Scarcerato poco dopo, rientra nelle grazie di corte, tanto da vedersi affidare una spedizione colonizzatrice in Paraguay; tuttavia l’esperienza maturata nel precedente viaggio lo porta a criticare apertamente le modalità di sfruttamento delle colonie; ciò significava criticare la politica e l’autorità della corona: di qui l’inevitabile rottura con la corte. “Cabeza de Vaca” viene richiamato in Spagna ed esiliato a Orano, fortezza spagnola in Algeria (1545); graziato nel 1553, farà ritorno nella sua natia Andalusia, spegnendosi a Siviglia nel 1559.

Durante gli anni paraguaiani e il successivo esilio algerino, Álvar Núñez scriverà l’opera che lo ha consegnato alla storia, i Naufragios y relación de la jornada que hizo a la Florida, tradotta in italiano con il titolo di Naufragi; trattasi della relazione presentata al proprio sovrano, Carlo V – per castigliani e aragonesi  Carlo I -, un resoconto preciso della sua straordinaria avventura. Al lettore che ne sfoglia i contenuti, il conquistador appare diverso da come la storiografia presenta tali avventurieri; tramite Álvar si scopre un modello “diverso”, forse unico – o forse trascurato -, dei celeberrimi avventurieri che imposero l’hispanidad nel nuovo mondo; un uomo privo di pregiudizi, che vede negli indigeni non un modello di inferiorità ma esseri umani con le loro usanze, non cristiane – certo -, ma non per questo inferiori sul piano umano. Anche se “infedeli”, sono sempre “Figli di Dio”. I Naufragi sono contemporaneamente un tentativo di “educare” il proprio sovrano verso una nuova, più umana e tollerante gestione del “nuovo mondo”. Purtroppo non recepita.

Álvar Núñez “Cabeza de Vaca” fu il primo europeo a mettere il piede nell’odierno Texas. Fu il primo europeo ad attraversare gli odierni Stati Uniti dall’Atlantico al Pacifico. Fu il primo a praticare l’arte della chirurgia in quelle terre. Fu anche uno scrittore, a sua insaputa, la cui unica opera è giunta sino ai giorni nostri. Ma fu soprattutto un conquistador, avventuriero e soldato come gli altri. Un conquistador che non distrusse ciò che incontrò ma imparò ad amarlo; forse un’eccezione nell’universo dei conquistadores, ma, proprio per questo, meritevole di essere riscoperto dagli scrigni della memoria dove ora riposa.

Nicolò Dal Grande

 

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