Contributo in occasione del XVI Congresso annuale di Identità Europea.
Rimini, 30 aprile – 1 maggio 2011
Europa, aprile 2011. Le elezioni finlandesi potrebbero essere la pietra tombale sull’Unione Europea. La maggioranza dei finnici non vuol sapere di portare una parte del peso che dovrebbe servir a dar una mano a quei terroni dei portoghesi. Figurarsi che cosa si pensa, nel paese di Aalto e di Sibelius, di quegli altri terroni degli spagnoli, dei greci, degli italiani, anch’essi in difficoltà. Frattanto irlandesi, islandesi e svedesi danno a loro volta sfogo al loro malumore; dall’Olanda alla Danimarca all’Ungheria è tutto un risorgere di movimenti “patriottici” ammantati dei colori nazionali e arieggianti talvolta la ricostituzione di organizzazioni paramilitari. Qualcuno grida al “neonazismo”: ma le formazioni paramilitari dei totalitarismi tra le due guerre s’ispiravano principalmente al combattentismo, erano fatte oppure organizzate da gente che usciva dalla trincea, erano informate al principio che Schmitt avrebbe definito quello del politische Soldat; le formazioni dei gruppi micronazionalisti di oggi sembrano piuttosto ispirate a una specie di “neonazismo di ritorno”, passato attraverso modelli americani come quello dell’American Legion.
I tedeschi, dal canto loro, mandano a dire di non aver alcuna voglia di accollarsi una parte del peso e dei costi per i tunisini che arrivano in Italia: e ricordano, poco generosamente ma molto realisticamente, che quando furono sommersi dai kosovari dovettero cavarsela da soli. Non si parli dei francesi: Sarkozy fa la voce grossa con l’Italia e arriva a bloccare i treni di Ventimiglia un po’ perché questo è in effetti quel che pensa, un po’ perché è seccato di essersi lasciato scappar l’occasione di gestire da Parigi la crisi dell’ex-colonia tunisina (mentre è riuscito a meraviglia a bloccare la protesta algerina, soffocata difatti senza che nessuno in Europa osi parlarne), un po’ perché è tallonato da vicino e ormai di fatto nelle mani di madame Le Pen, czarina del Front National e molto più in gamba come politica di suo padre. Dire che la Le Pen è un’euroscettica sarebbe un maldestro eufemismo: ormai, siamo ben al di là. Ma anche Sarkozy è euroscettico, e la maggioranza dei francesi lo è.
D’altro canto, la diplomazia italiana che agita i protocolli di Schengen ha molto meno ragione di come potrebbe sembrare. In effetti, il nostro ministro degli Interni ha disposto di rilasciare ai poveracci che arrivano via mare a Lampedusa, rifugiati o migranti che siano (quale il loro status?), dei “permessi provvisori di soggiorno”: per avviarli poi dove? Per rimpatriarli nei loro paesi d’origine? Su questo, gli accordi assunti con il governo tunisino – del quale non si sa quasi nulla: a cominciare dalla sua effettiva esistenza – non sono per nulla chiari, anzi non esistono. Ed è evidente che, con quei permessi, i loro titolari non varcheranno le frontiere di alcun altro paese europeo, dal momento che l’Italia non è riuscita a farne riconoscere la validità dai suoi partners. E così, mentre noi continuiamo a baloccarci con i processi di Berlusconi, verrebbe da chiedersi se per caso non sarebbe bene che il ministro degli Interni e quello degli Esteri si scambiassero qualche idea sulla linea politica da seguire: magari tenendo conto che esiste un’Unione Europea. Ma esiste, se davvero può far finta di non rilevare l’esistenza di un problema come quello costituito dai migranti-rifugiati?
Comunque, vecchie o nuove che siano le sue forme, sta emergendo oggi in Europa un “patriottismo nazionale” che a lungo si credeva battuto con la fine dei fascismi e che invece è riemerso, dotato anzitutto di due connotati: il primo è la xenofobia “di difesa”, la paura dell’invasione esterna da parte di portatori di culture diverse dalla “nostra” e che, dal momento che la condanna del razzismo che si collega col nazismo appare irreversibile, assume magari i colori della “difesa della civiltà cristiana” o delle ricerca di un’identità che si presenta come nazionale o regionale (mai “europea”); dall’altro, il rifiuto dell’europeismo in quanto lontano dalla gente, burocratico, appoggiato a valori invecchiati e desueti come – li definisce Ernesto Galli della Loggia nel suo fondo La frattura culturale pubblicato su “Il Corriere della Sera” del 20 aprile 2011 – «…l’internazionalismo, l’espansione illimitata dell’individualismo e dei suoi diritti, l’idolatria del proceduralismo consensualistico, l’idea che l’economia rappresenti il regolatore supremo delle collettività umane».
Ma “la gente”, i meno istruiti e quelli che si sentono economicamente più deboli, reagiscono a queste vecchie e ingessate idee con insofferenza: anzi, talvolta manifestando con cinico e grossolano orgoglio la propria indifferenza dinanzi a valori che i ceti dirigenti ritengono ormai sottintesi e irreversibili. Che cosa significano solidarietà e consensualismo se le prospettive della crescita economica, della decrescita demografica e dell’invecchiamento della popolazione si fanno sempre più cupe? Che cos’è questa pervadente cultura informatico-telematica, dinanzi alla quale molti di sentono sempre più spaesati? Come agire e orientarsi in un mondo nel quale sembrano sopravvivere solo spezzoni della vecchia cultura etica che navigano spauriti in un mare di disorientamento?
Emerge da questo il nuovo “populismo”. La nuova indistinta necessità di agire più che di pensare, ma che sembra ancora alla ricerca di un’idea-forza nuova. Nel vecchio linguaggio marxiano, si sarebbe forse parlato d’istanze “prepolitiche”, le quali si esprimono forzatamente, per ora, in un linguaggio “antipolitico” (Berlusconi e la Lega Nord insegnano) che però non è più apolitico, per quanto stia emergendo da una palude di disinteresse e di disimpegno. Interesse e disimpegno che però, di solito, convivono con un minimo di prosperità e/o di sicurezza: quando l’uno o l’altro di questi valori viene meno, si rischia che interesse e disimpegno cedano alla rabbia e al panico.
Ora, può anche sembrar paradossale, ma è invece profondamente logico, che questo malessere e questo malumore diffuso si stia dirigendo contro le istituzioni unitarie e comunitarie europee. In apparenza, si sta assistendo a una rivolta contro il burocratismo: il che potrebbe sembrar parte di una specie di libertarismo populista. È vero il contrario: la gente sta reagendo, in modo immaturo e caotico, alla privazione di welfare alla quale l’hanno gradualmente condotta gli organi usciti dalla pluridecennale articolazione del burocratismo di Strasburgo e di Bruxelles: perché la “costruzione europea” è stata – diciamolo ancora con Galli della Loggia – «l’àmbito dove il democratismo economicistico post-nazionale delle élite del vecchio continente ha avuto e ha modo, logicamente, di dispiegarsi con maggiore ampiezza. E dunque è naturale che sia regolarmente l’Unione Europea quella chiamata a pagare oggi il prezzo più alto per le scelte delle élites di cui sopra. Perché mai gli elettori finlandesi o quelli di qualunque altro paese dovrebbero mostrarsi solidali con le disastrate finanze di Grecia e di Portogallo? Si può essere solidali davvero solo con coloro a cui ci sentiamo legati da vincoli di comune appartenenza…».
Proprio qui sta il punto. Compratevi un manualetto da 4 euro, stampato e distribuito dall’editore Mille et Une Nuits (che poi, in realtà, è la Fayard di Parigi). È organizzato da Aurélien Bernier, è intitolato Désobéissons à l’Union Européenne ed ha come scopo la «riconquista della sovranità popolare». Eppure, se c’è una cosa che in teoria l’Unione Europea non ha mai veramente toccato, è appunto la “sovranità popolare”: al quale, in concreto, significava il potere decisionale dei singoli governi. L’Unione Europea attuale, sviluppo della Comunità Economica Europea, non si è mai costituita sulla base della cessione da parte dei singoli stati di una porzione di sovranità a un potere federale centrale. Unione di stati e di governi, a loro volta “comitati d’affari” di lobbies sempre più potenti e sempre più orientate al proprio interesse, ha consentito solo a quelle lobbies di “far politica”, vale a dire di prender decisioni. Da qui l’iperliberismo delle istituzioni comunitarie, che si è appoggiato alla cappa di piombo del dirigismo obbligante per i singoli paesi: il tutto nel nome di una conclamata “necessità economica” presentata come primaria. Tirannia di un “primato dell’economia” che rappresenta, in realtà, la superficie di una dura e ottusa volontà di possedere, di dominare e di sfruttare. Con il solito fine di perpetuare lo sfruttamento attraverso la dominazione.
E allora, quel che in tutto questo psicodramma che sarebbe ridicolo se non fosse tragico emerge con chiarezza è una cosa sola. E va detta chiara. E va detta tutta. L’Europa non c’è. Gli euroscettici, che poi sono degli antieuropeisti, hanno vinto: almeno per ora. Resta da capire se, pessimisticamente, l’Europa non c’è più; oppure se, ottimisticamente, non c’è ancora.
Quella che non c’è più è l’Europa che sembrava nata nel 1958 con il Parlamento Europeo: e che invece era un mostriciattolo combinato mettendo insieme gli obiettivi della NATO (subordinare qualunque forza militare europea agli alti comandi e ai programmi statunitensi, come si vide dai Trattati di Parigi del ’54) e quelli della Comunità Economica Europea messa a punto coi Trattati di Roma del ’57. Il risultato, con il Parlamento europeo dell’anno seguente – 143 membri eletti dai parlamenti nazionali – era quello di dirigere l’economia del continente ma di non toccare le cosiddette “sovranità nazionali” di ciascuno stato, che dovevano rimanere intatte in modo da venir meglio sottoposte al divide et impera di Washington. Solo De Gaulle si accorse sul serio che qualcosa non andava: non stette al gioco e cercò di persuadere anche Adenauer che era necessario un diverso disegno unitario, che il Mercato Comune Europeo così com’era stato prospettato non andava, che la Gran Bretagna andava lasciata fuori dall’Unione.
Le cose andarono diversamente. Non abbiamo fatto l’Europa: con l’euro, abbiamo fatto l’Eurolandia, l’area di circolazione della nuova moneta unica. L’Unione Europea, frattanto, è maturata con i suoi elefantiaci e costosissimi organi comunitari, ma è restata un’unione degli stati e dei governi, non dei popoli. Massima, dirigistica e oppressiva unione economica e finanziaria; debole unione giuridica; illusoria ed eterodiretta unione militare; illusoria unione anche culturale. Molti Erasmus, ma nulla che incidesse davvero sulla preparazione delle giovani generazioni: la prova più plateale di tutto ciò è che non si è mai sentito il bisogno di una scuola primaria e secondaria dotata di un minimo di tratto comune; che non si sia mai insegnato ai bambini e ai ragazzi europei una storia comune europea.
Ora, qualunque fine facciano le fatiscenti e costosissime infrastrutture burocratiche di Strasburgo e di Bruxelles, una cosa è certa. Quest’Europa costruita a partire dal tetto anziché dalle fondamenta non c’è più.
E quella che non c’è ancora? Bisogna ripartire da zero. Dalla costruzione delle fondamenta: che sono un patriottismo europeo, un senso identitario europeo. Le basi per far tutto ciò, nel 1945 c’erano. Furono sacrificate alla logica della Guerra Fredda. E adesso?
Ora siamo arrivati al dunque. E la domanda, allora, è proprio questa: perché mai un giovane finlandese dovrebbe accettare di sacrificarsi per un futuro che non è ancora nelle sue mani in quanto magari è disoccupato o sottoccupato: e tutto ciò per aiutare l’economia del Portogallo? Chi ha mai insegnato a quel giovane finlandese che cosa sia il Portogallo e in che misura la storia finlandese e quella portoghese s’incontrino in un comune “patriottismo europeo”, nuovo ma in realtà nato dall’antichissima lezione della storia e delle sue radici. Da decenni i nostri ragazzi vedono la bandiera europea sventolare alle finestre delle loro scuole: qualcuno ha mai cercato di spiegarne loro il significato, anzi di attribuirgliene uno?
L’inno europeo è un passo della Nona di Beethoven, l’Inno alla Gioia: ma non ha parole. Qualcuno si è mai curato di dargliene di comuni, traducibili in tutti gli idiomi del continente? Identità Europea si è provata a proporlo: nessuno ha mostrato di accorgersene e di curarsene.
Soldati europei muoiono in tutto il mondo, in missioni che servono alla superpotenza statunitense, alla NATO o alle varie lobbies: avete mai visto una sola delle loro salme tornar in patria avvolta nella bandiera europea? Il che è del tutto normale: in mezzo secolo, le istituzioni comunitarie non hanno mai ritenuto opportuno creare un abbozzo di comune scuola europea per le giovani generazioni, dar loro un manuale di storia europea su cui studiare. Guardate alla storia: e a come, nel bene e nel male, si sono costituiti i “patriottismi sovranazionali” quali quello statunitense. Alla fine, si è giunti a raccogliere un popolo quanto mai eterogeneo in una sola “nazione americana”. Alcuni anni or sono, qualcuno aveva provato a proporre la costruzione di una “nazione europea”: progetto in effetti nato dallo sfacelo della seconda guerra mondiale, e ferocemente combattuto come “neonazista”. E fallito. Ma oggi – ci aiuta ancora una volta Galli della Loggia – eccoci a una situazione dove, dinanzi ai tentativi d’imporre sacrifici presentati come necessari per salvare altri europei che avrebbero dovuto essere nostri connazionali ma che le scelte dei nostri dirigenti non hanno voluto mai far accettare come tali, «prendono a crescere i partiti dell’atavismo, della chiusura nel comunitarismo, nel caldo della Heimat e infine dell’esclusione e dell’odio».
E allora, diciamolo. L’Europa è morta. Viva l’Europa. Ricominciamo da capo. Dalla politica, dalla storia, dalla cultura. Non facciamo il gioco né della tirannia ipercapitalista e iperliberistica del burocratismo veteroeuropeistico, né delle risorgenze degli stati nazionali e dei loro piccoli, miopi egoismi che s’illudono di poter scampare, da soli, a una crisi socioeconomica che sta avanzando e che deve essere affrontata da un’Europa unita.
Ricominciamo da un patriottismo europeo, da un senso civico europeistico che non sacrifichi nulla della nostra storia e della nostra tradizione: né la nostra Heimat locale e regionale, né il nostro Vaterland nazionale, né il nostro Grossvaterland continentale.
Facciamo capire a finlandesi e a portoghesi che siamo in realtà tutti su una stessa barca. Mostrando loro anzitutto i societarismi nemici: la burocrazia di un’Eurolandia iperliberista; la politica delle lobbies occidentali che arricchiscono sì alcuni europei, i Soliti Noti, ma affamando il mondo e togliendo il lavoro ai poveri del nostro continente per cederlo sottocosto ai poveri asiatici o africani o latinoamericani che consentono maggiori margini di profitto; la natura criminale di istituzioni come la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale; l’illusione “occidentalista” che ci lega al carro della ex-superpotenza statunitense, la falsa difesa del patto NATO che, in realtà, è un’occupazione militare straniera che tratta gli eserciti europei come ascari e il suolo europeo come terra da colonizzare.
Soli, e pochissimi, ricominciamo il cammino.
Franco Cardini