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CINA: LA “BOLLA FINANZIARIA” E’ UN PERICOLO SOPRATTUTTO PER L’UE. di Marcello Ciola

11 Settembre 2015
in Articoli

Si è molto parlato della crisi dei mercati finanziari cinesi e più di qualche cronista ha paventato l’ipotesi (se non proprio la certezza) che l’ultimo crollo della borsa di Shanghai fosse il sintomo della imminente disgregazione di tutto il sistema cinese, rappresentato come un “gigante dai piedi di argilla”.

C’è più di un motivo per dubitare di questo genere di interpretazione che valuta i meccanismi della politica finanziaria ed economica cinese con le categorie e le interpretazioni “trans-atlantiche” (o “occidentali” se si preferisce). Bisogna partire dal presupposto che l’economia e la finanza sono scienze sociali nonostante esse si basano su modelli matematici: questo perché nella grande maggioranza dei casi sui modelli è forte l’interferenza del “Politico” e, quindi, di un più o meno preciso progetto umano che è a sua volta figlio di una cultura, di una storia e di interessi particolari e, quindi, sempre differenti tra loro. Nel caso particolare, la storia economica e finanziaria cinese e il suo funzionamento attuale hanno una loro peculiarità e necessitano di una valutazione differente rispetto a quella che potrebbe essere fatta sulle economie europee, una valutazione che non può prescindere dallo studio delle strategie politiche del Partico Comunista Cinese. La Cina degli ultimi 20 anni sta effettuando una graduale conversione del sistema economico da “pianificato” a “socialista di mercato”; cioè, si sono conservate le leve più importanti della politica all’interno dell’economia e della finanza ma c’è stata una decisa apertura a investimenti stranieri e ai mercati finanziari. Questo meccanismo, ha consentito alla Cina una crescita economica grandiosa che è stata amplificata dal bassissimo costo della manodopera (per di più poco tutelata) e da una moneta molto debole rispetto al dollaro e all’unità di conto del Fondo Monetario Internazionale[1] (FMI). Dal ’97, la Cina, onde evitare oscillazioni del valore della propria moneta, ha ancorato lo yuan al dollaro/DPS con un sistema di cambio a bande strette (cioè con oscillazioni consentite rispetto al valore del dollaro/DPS molto basse). Questo ha legato in maniera importante le politiche monetarie cinesi a quelle americane favorendo una maggiore stabilità dei mercati finanziari: una sorta di “assicurazione” sull’andamento degli equilibri finanziari cinesi per tenere tranquilli gli investitori. Tra luglio e agosto scorsi, il mercato azionario di Shanghai ha visto una perdita del 40% dei flussi azionari (a fronte di una crescita del 150% nell’ultimo anno) e un conseguente taglio consistente del tasso di cambio che è andato ben oltre il -2% consentito dal regime a bande strette stabilito dal governo di Pechino. Questo ha creato ripercussioni sulle borse internazionali, soprattutto su quelle del sud-est asiatico e dell’Europa.

Da diversi anni si parla della “guerra delle valute” tra Cina e Stati Uniti in cui questi ultimi accusano la Banca Centrale Cinese di truccare il valore del tasso di cambio al ribasso con l’intenzione di distruggere il tessuto industriale americano favorendone la delocalizzazione e inondando gli Stati Uniti dei propri prodotti a basso costo. D’altro canto, la Cina ha sempre mostrato una forte volontà di voler riformare il sistema FMI/DPS e di voler introdurre lo yuan tra le grandi valute del mondo (cosa che de facto già è, essendo tra le prime monete al mondo per quanto riguarda gli scambi internazionali). Vista l’opposizione dei Paesi che hanno la maggioranza delle quote di voto del FMI, da qualche anno il governo di Pechino ha iniziato a lavorare ad un sistema alternativo al FMI che faccia riferimento ad un paniere di valute diverso da quello del DPS. Per fare questo e uscire dall’impasse di questa “guerra valutaria”, la Cina è disposta a esporsi alle turbolenze finanziarie come sta accadendo in questo momento. Molti analisti finanziari, non a torto, stanno interpretando queste “scosse di assestamento” dell’economia cinese come dei passi decisivi verso questo grande progetto di riforma finanziaria internazionale e, quindi, verso lo sganciamento del cambio fisso con il dollaro. Di contro, alcuni analisti e commentatori sottolineano come questa situazione macroeconomica non sia positiva per la potenza globale cinese in quanto lo yuan si sta sostanzialmente deprezzando rispetto al dollaro per arginare gli effetti della crisi delle esportazioni cinesi (e del conseguente rallentamento della crescita del PIL) anche in virtù di un maggiore deprezzamento delle valute concorrenti. Questo, secondo gli analisti che potremmo definire “pessimisti”, è indice dell’intenzione di voler favorire una sorta di “svalutazione competitiva” in salsa cinese per ridare vigore alla crescita economica su cui si basa l’esistenza del regime politico comunista. Questo, a parere di chi scrive, è in parte vero. La parte vera è che la crescita economica è fondamentale per la sopravvivenza del regime cinese e che effettivamente il rallentamento del PIL è dovuto in parte a un consistente deprezzamento delle valute concorrenti (cui prodotti “mangiano” porzioni di mercato dell’export cinese); ma la parte non vera è quella su cui è utile riflettere: ad oggi, lo yuan ha perso circa il 3-4% rispetto al dollaro, mentre lo yen o l’euro hanno perso circa il 20%. Questo vuol dire che se è vero che c’è stato un deprezzamento formale, esso non è stato un deprezzamento reale (in quanto le altre valute si sono svalutate molto di più). Lo si potrebbe definire quasi un deprezzamento funzionale in quanto utile alla Cina a recuperare milioni di dollari dalla vendita di valuta estera[2] (specialmente americana)[3]. Altro fattore che influenza il rallentamento della crescita del PIL è quello legato alle “bolle finanziarie” che crescono nell’economia cinese (esattamente come è successo per l’Europa) a causa del suo profondo legame con la politica monetaria americana (da cui, è bene ricordare, essa si vuole distaccare). A differenza dell’Europa, però, la Cina ha riserve monetarie tali da poter contenere in questo momento tutte le bolle finanziarie stimate dagli analisti. La “svalutazione competitiva” cinese, in sostanza, non esiste: questo strumento, tipico delle economie acerbe o di quelle che sono arrivate ad un profondo stato di decadenza, non è un obbiettivo del governo cinese. Inoltre, il rallentamento del PIL è anche un fatto di Storia dell’Economia: i Paesi più ricchi crescono più lentamente e la Cina, che si appresta a diventare un “Paese sviluppato” a tutti gli effetti, anche con una crescita del 5% annuo (stime al ribasso) potrà comunque diventare la prima potenza economica mondiale entro il 2030.

Cosa vuole, dunque, il governo cinese e cosa dovrebbe fare per ottenerlo? Per quanto concerne la prima domanda, Pechino (e la sua Banca Centrale) sanno a grandi linee cosa vorrebbero dalla politica economica cinese: creare un nuovo ordine economico mondiale che sostituisca il vecchio (che mostra forti resistenze politiche in favore dello status quo). Il percorso da intraprendere, però, non sembra essere stato deciso in maniera chiara. Se in questa nuova fase di transizione è chiara la volontà politica di passare da una economia manifatturiera a una di servizi e dagli investimenti al consumo, non è altrettanto chiaro se Pechino voglia farlo “artificialmente” oppure stimolando l’autonomia del mercato. Il partito comunista cinese, con molte probabilità, non rinuncerà mai alle leve della politica anche in economia e questo potrebbe rappresentare un grande vantaggio in questa fase finanziaria turbolenta[4]. Leve politico-economiche che l’Unione Europea e la BCE hanno forti reticenze ad utilizzare in virtù di totemici dogmi economici la espongono alle bolle e agli squilibri finanziari creati artificialmente altrove: se la turbolenza cinese dovesse farsi più intensa, Pechino avrebbe gli strumenti e la strategia (sebbene non pianificata in maniera chiara) per poterne uscire bene, mentre la fragilissima ripresa economica europea non resisterebbe e crollerebbe del tutto, salvo rivoluzionari cambi di direzione nella propria politica economica. La BCE e gli Stati dell’eurozona hanno sbagliato in passato a non tutelarsi dai prodotti cinesi (sia materiali che finanziari) e ora sono rinchiusi tra due uragani finanziari, quello americano (che potrebbe ri-scoppiare da un momento all’altro) e quello cinese (che si è visto essere più pericoloso per l’Europa che per la Cina); occorre correre ai ripari e bisognerebbe farlo in tempi brevi. Riprendere il controllo politico sulle strategie monetarie è uno dei pochi e reali interessi comuni europei, l’Unione non può pensare di adeguare i propri mercati a quelli cinesi perché, come detto all’inizio, modelli economici validi in estremo oriente non è detto che funzionino in Europa; gli Stati dell’Unione, come dei moderni Argonauti, dovrebbero riuscire nell’impresa di non finire dilaniati da Scilla o risucchiati da Cariddi; purtroppo, a differenza degli Argonauti, non vi sono validi e coraggiosi condottieri come Teti in grado di guidare e proteggere il fragile sistema economico/finanziario europeo.


[1] I così detti Diritti Speciali di Prelievo (DPS), un paniere di monete costituito da Dollaro, Euro, Yen e Sterlina.

[2] La Cina ha la più grande riserva al mondo di valuta estera e questo è un fattore di grande rassicurazione per i mercati finanziari.

[3] Esempio: un deprezzamento del 4% dello yuan corrisponde ad un uguale apprezzamento del dollaro. Se la Cina vende 100 miliardi di dollari contemporaneamente a un deprezzamento del 4% è come se incassasse 104 miliardi di dollari. Secondo alcune stime, la Cina vuole sbarazzarsi di 1,5 trilioni di dollari. Questo lascia chiaramente capire quali possano essere i guadagni cinesi a seguito di questo momentaneo deprezzamento funzionale.

[4] Dovrà sicuramente risolvere l’annoso problema della corruzione del sistema burocratico che nel lungo periodo potrebbe rappresentare un fattore negativo per gli investimenti stranieri.

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