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HIROSHIMA E NAGASAKI, 6 AGOSTO 1945. IL GIORNO DELLA VERGOGNA. di F. Cardini

6 Agosto 2015
in Articoli

6 agosto 1945. Settant’anni fa. Sembrano mille anni, oppure sembra ieri. Una catastrofe, un’ecatombe nel cuore di tenebra del pur terribile e sanguinoso Novecento. L’orrore e i soliti esorcismi verbali non bastano. “Come fu possibile, in pieno XX secolo?”. “Un salto nel buio, un balzo all’indietro nel più cupo medioevo?”.

Piantiamola. Hiroshima e Nagasaki sono cose nostre, ci appartengono: rappresentano appieno il Novecento con tutto il suo progresso scientifico, tutta la sua straordinaria tecnologia, tutta la sua spietata scintillante Volontà di Potenza. Gli alibi per quell’orribile esperimento dal vivo – primo fra tutti il più miserabile, la scusa umanitaria (“abbreviare il conflitto”; “salvare migliaia di vite umane”) – non sono ormai più credibili, pur ammesso e non concesso che mai lo siano stati.

La guerra era finita. Tra il 7 e l’8 maggio i rappresentanti supremi di quel che restava del Terzo Reich e delle forze armate tedesche avevano firmato la resa incondizionata, a Reims in presenza del generale Eisenhower e a Berlino in quella del maresciallo Zukov. Quanto al fronte estremo-orientale, dopo la conquista di Filippine e Birmania, il 19 febbraio le truppe statunitensi erano sbarcate in territorio giapponese, sulla spiaggia di Iwojima; l’aeronautica americana aveva da quasi due anni conquistato la superiorità aerea sui cieli nipponici e bombardava incessantemente città e installazioni industriali ormai in ginocchio.

Dal maggio, da quando cioè l’Impero del Sol Levante era rimasto solo a fronteggiare gli Alleati vincitori, le trattative per la sua resa erano già state avviate. Il 17 luglio si era riunita a Postdam la conferenza dei vincitori: erano presenti Winston Churchill, Harry Truman e Jozip Stalin. Il 26 gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ai quali si era unita la Cina di Chiang Kai-shek, avevano indirizzato al governo giapponese un ultimatum esigendo la resa incondizionata e l’abdicazione dell’imperatore Hirohito. Ad esso non si era associato Stalin in quanto l’URSS non era in guerra contro il Giappone. Dal momento che da parte del governo nipponico non era giunta risposta, quello statunitense aveva preso la decisione di concludere con uno spettacolare esperimento dal vivo il “progetto Manhattan”, al quale si stava lavorando dal 1942 (vale a dire da pochi mesi dopo l’ingresso degli USA in guerra).

Le debolissime ragioni con le quali Truman giustificò la sue decisione s’incentrarono tutte sulla necessità – vista l’ostinazione giapponese – di abbreviare il conflitto, il che significava soprattutto, per l’opinione pubblica americana, risparmiare la vita di molti soldati statunitensi: la guerra nel Pacifico e l’operazione Downfall, che avrebbe dovuto seguire lo sbarco di Iwojima, erano costati troppe perdite (il che, in democrazia, significa sconfitta certa nelle elezioni future). Più serie altre ragioni: era necessario giustificare i costi esorbitanti del “progetto Manhattan” dando una prova inoppugnabile della sua atroce efficacia; e al tempo stesso lanciare un implicito ma chiaro avvertimento alla potenza antagonista degli anni a venire, l’Unione Sovietica. In realtà, la principale e meno confessabile delle ragioni – quella che in effetti mai fu addotta – fu la volontà di provare quale fosse l’effettiva potenza dell’ordigno: a tale scopo fu accuratamente scelto l’obiettivo, la città di Hiroshima che fino ad allora non aveva subìto alcun attacco aereo. In questo modo, su un centro demico lasciato intenzionalmente intatto, si poté verificare la portata distruttiva della bomba.

L’ordigno nucleare, amabilmente battezzato Little Boy, fu sganciato sulla città di Hiroshima alle 8,15 da una superfortezza volante B-29 al comando della quale era Paul Tibbets, che aveva battezzato il suo aereo con il nome “benaugurante” di sua madre, Enola Gay. La “tempesta di fuoco” immediatamente si sprigionò su una città che poteva allora ospitare dai 250.000 ai 350.000 abitanti. L’8 successivo – mentre con l’accordo di Londra le potenze alleate sottoscrivevano gli statuti del Tribunale Militare che avrebbe a conflitto finito dovuto giudicare sui crimini di guerra – Truman rinnovò l’ultimatum al governo nipponico, accompagnandolo con un proclama nel quale avvertiva il popolo giapponese che il suo paese era in possesso di un’arma di potenza inaudita, capace di cancellare le isole del Sol Levante dalla faccia della terra. Senza dare al governo imperiale il tempo di reagire, nella mattinata del 9 agosto la bomba Fat Man fu sganciata su Nagasaki. Ma poche ore prima, verso l’una di notte, Stalin aveva a sua volta dichiarato guerra al Giappone e occupato la Manciuria. Era l’America la vera destinataria di quella mossa: sotto quel punto di vista, Hiroshima non era servita a nulla. Ma le due esplosioni cadevano obiettivamente sotto le sanzioni dell’articolo 6B degli statuti di fresco siglati dalle potenze vittoriose. Un bell’autogoal.

Non conosciamo il numero esatto delle vittime: per Hiroshima si è parlato di 90.000-140.000 morti, per Nagasaki tra i 60.000 e gli 80.000. Ma decine di migliaia furono i feriti; e tra quei lesionati molti morirono dopo, atrocemente, per le conseguenze della “peste nucleare”. Conseguenze che continuano a mietere la morte tra i discendenti di quegli sventurati.

Hiroshima e Nagasaki non furono soltanto un orribile e premeditato crimine di guerra per il quale non c’è stata alcuna Norimberga. Esse furono anche il preludio di una serie di nuovi crimini e di nuove distruzioni. Nonostante la ripetuta esorcizzazione dell’uso delle armi cosiddette “non convenzionali” (che peraltro, com’è noto, continuano ad essere prodotte), come l’”Agent Orange” in Vietnam o gli ordigni a uranio impoverito nei Balcani e in Iraq e il fosforo bianco a Falluja, ancora in Iraq, hanno continuato ad essere usati non solo contro i militari – com’era accaduto per l’iprite durante la prima guerra mondiale – ma anche contro le popolazioni civili. I Funghi Atomici del 1945 hanno aperto un’era che non si è ancora conclusa: ed è inutile sperare ingenuamente che sia sufficiente che gli ordigni di morte non cadano in mano di governi “non democratici”. A scatenare l’inferno del ’45 fu la prima democrazia del mondo. E i pentimenti postumi – quello di Oppenheimer in prima linea – non servono. Settant’anni dopo quell’orrore, gli arsenali nucleari di troppi paesi traboccano di ordigni ben più potenti di Little Boy e di Fat Man.

Franco Cardini

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