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Palmira. di F. Cardini

3 Giugno 2015
in Articoli

Probabilmente quelli dello “Stato islamico” di al-Baghdadi ci sopravvalutano, hanno un troppo alto concetto di noi. Nella loro barbara ma lucidissima logica e nell’intento di provocarci e d’indignarci fino al punto di farci reagire alla cieca per dimostrare al resto dell’Islam sunnita che i “crociati occidentali” li odiano, dal momento che le decapitazioni non bastano adeso provano con le distruzioni di splendide, insostituibili opere d’arte. Non riusciranno nemmeno in tale intento. Ma, in attesa che ci privino di una delle Meraviglie del Mondo, riflettiamo: che cos’è Palmira, che molti italiani conoscerebbero se non le avessero preferito le Seychelles o le Mauritius?

Semplicemente una gloria del genere umano, un città ellenistica di assoluta bellezza e molto ben conservata. In Siria, tra Eufrate e Mar di Levante, s’incrociavano fino dall’antichità remota le vie commerciali che collegavano la Cina con il Mar di Levante (la “Via della Seta”) e quelle che dai porti meridionali della penisola arabica, dove approdavano le flottiglie provenienti dalla Indie, risalivano fino a Damasco per proseguire verso l’Anatolia (la “Via delle Spezie”, o “degli Aromi”). I romani conoscevano poco del subcontinente indiano, che fino dal tempo di Alessandro Magno i geografi avevano fasciato di fantastiche leggende, mentre i Seres, i cinesi, erano per loro poco più di un puro nome. Eppure le sete, i bronzi, le gemme, gli aromi pregiati per farne profumi e unguenti arrivavano in quantità sino al Caput mundi.

E tutto passava da quei fasci di piste carovaniere che convergevano in un’area ristretta fra gli odierni Libano, Siria e Giordania. Fungevano da collettori di essi alcune città-mercato, le “città carovaniere” ch’erano altrettanti città-stato retti da un’aristocrazia di mercanti-predoni di stirpe araba, come gli idumei, i sabei, i nabatei. Queste città carovaniere, che l’opulenza dei loro padroni aveva fatto diventare degli autentici capolavori dell’eclettica arte ellenistica, si chiamavano Baalbek, Jerash, Petra: e ancor oggi le loro rovine incantano, ci lasciano senza parole.

Ma Palmira, al centro di uno sterminato oasi dal quale prendeva il nome (Tadmur, “la città dei datteri”) era senza dubbio la più splendida. Il piccolo prospero regno che essa si era costruito attorno, “cuscinetto” tra l’impero romano e quello parto-persiani, assurse nel corso del III secolo d.C. a una tale fama e a una tale potenza che i romani, suoi confinanti occidentali, si resero conto di non poter fare a meno di conquistare se volevano dominare le vie carovaniere e assicurarsi la frontiera che guardava la loro grande avversaria, la Persia.

Era allora sovrano di Palmira l’abile e colto Odenato, che morì lasciando il regno nelle mani del figlio. Ma la vera padrona del potere era una donna, la terribile e affascinante Zenobia: una di quelle inquietanti figure femminili che hanno dominato il mito e la storia orientale antica – da Hautshepet alla leggendaria regina di Saba, a Semiramide, a Pentesilea, a Sofonisba, a Tomiri, a Cleopatra, fino alla stessa Giulia Domna moglie di Settimio Severo – tutte memoria, forse, di fasi arcaiche segnate dal matriarcato regale.

Contro l’autocratica signora che trattava da pari a pari i Cesari di Roma e i Gran Re di Persepoli dovette scendere in guerra l’imperatore Aureliano, il culto monoteistico-solare promosso dal quel trionfa anche negli stessi splendidi monumenti dell’arte palmirena. Zenobia, sconfitta nel 272, venne condotta a Roma dove rifulse come la preda più splendida del trionfo imperiale.

Da allora, Palmira si avviò lentamente sul viale del tramonto: che fu tuttavia lungo, perché ancora nel XII secolo il sultano Saladino l’arricchì di una formidabile fortezza. Più tardi dimenticata e ridotta a cava di pietre come altre sue consorelle, fu riscoperta nel secolo XIX grazie a scavi soprattutto inglesi e tedeschi. Fino a ieri, costituiva uno dei siti archeologici più noti e visitati del mondo. Il governo siriano manteneva in perfetto stato la sua area archeologica e aveva dotato il territorio circostante di ottimi alberghi e di eccellenti strutture turistiche. Ma nel 2011 il presidente francese Sarkozy e il premier britannico Cameron decisero che Bashar Assad era un dittatore da abbattere e appoggiarono a tale scopo i suoi oppositori armati, tra i quali forti erano gli jihadisti. Hollande seguì la linea di Sarkozy. Adesso abbiamo dinanzi agli occhi, a Palmira, gli esiti di tale dissennata politica: che naturalmente molti media occidentali cercano di attribuire al solo fondamentalismo islamico.

Palmira è stata difesa dalle milizie irakene sciita non governative di Muktada al-Sadr, capo del Hashd al-Shaabi, affiancato dai miliziani sciiti addestarti dall’Iran guidati dai generali Hadi al-Amiri e Falih al-Fayyadh nonché da Qassem Suleimani, leader delle forze sciite filoiraniane del cosiddetto “Asse della resistenza”, mentre l’esercito regolare siriano è ormai alle corde. Partita da Dair as Zur in Siria, l’armata del califfo al Baghdadi punta a sudovest verso Damasco, sulla via della quale si è ormai impadronita di Palmira, e a sudovest verso Baghdad, sulla via della quale si è impadronita di Ramadi a poco più di un centinaio di chilometri dalla capitale.

A Tadmur c’era un famoso carcere aperto da Hafez Assad, padre di Bashar: vi erano accadute cose orribili e Bashar l’aveva chiuso per riaprirlo però di nuovo. Ora, i miliziani dell’IS hanno liberato tutti i detenuti di quel luogo da incubo e stanno cercando i veri o presunti partigiani di Assad casa per casa.

E l’incubo avanza. Pare proprio che i finanziatori e sostenitori “occulti” (?!) del califfo al-Baghdadi siano ben decisi a consentirgli di prendere Damasco e Baghdad, nonostante si continui a blaterare che egli sia il nemico pubblico n.1 da battere. Perché a Damasco c’è ancora Assad, che almeno i francesi si ostinano a voler rovesciare in quanto filoiraniano, e a Baghdad c’è un governo sciita che senza dubbio guarda a sua volta a Teheran. Al vertice europeo di Riga si è parlato della necessità di reagire e si è rimandato il tutto al prossimo vertice di Parigi che sarà presieduto dal ministro degli esteri francese Fabius e dal segretario si stato statunitense Kerry. Si dice che perfino il presidente Hollande abbia cominciato a intuire quanto dissennata fosse la sua politica di appoggio indiscriminato ai ribelli nemici di Assad e intenda adesso favorire un colloquio tra le parti contendenti in Siria in vista del nuovo più terribile nemico. Intanto, pare che l’IS abbia cominciato a colpire i centri di culto sciiti nella stessa Arabia saudita. Ma Hollande, che continua a individuare un pericolo in quell’Iran con il quale il presidente Obama ha avviato trattative proficue, continua a mostrarsi orientato all’appoggio del fronte sunnita costituito da Arabia saudita, Qatar ed Egitto: il che significa in ultima analisi che egli preferisce appoggiare la fitna antisciita piuttosto che qualunque seria iniziativa volta contro l’IS. La voce di Obama è ragionevole ma debole, l’Inghilterra latita. Se il re dell’Arabia saudita, che ha sempre condotto nel suo paese una politica repressiva nei confronti della minoranza sciita, lascia ora che al-Baghdadi bombardi quei suoi già bistrattati sudditi senza reagire, che cosa si deve pensare? E quale potrebb’essere il quadro di un futuro Vicino Oriente caratterizzato da un IS che avesse occupato per intero Siria e Iraq? Chi sta colpendo il califfo con la sua avanzata, se non l’Iran e la potenze statunitense che su un accordo con l’Iran stava contando nel quadro di una pacificazione del Vicino Oriente? E quali conclusioni potremmo trarre da tutto ciò se non che è in atto una grave offensiva condotta dai paesi arabi sunniti che vogliono la fitna antisciita in funzione antiraniana, con il benevolo appoggio di Francia e Inghilterra e magari di Turchia e Israele, nonché ovviamente del congresso degli Stati Uniti egemonizzato dai repubblicani neobushisti?

Alla fine di questo tunnel, c’è una prospettiva agghiacciante. Si sta preparando, nonostante Obama, un’offensiva contro l’Iran. Lo jihadismo è un falso nemico del cosiddetto Occidente; anzi, ne è un alleato. A questo punto non c’è che da sperare in una mossa di Putin. O da temerla, se egli ne sbaglierà intensità e carattere.

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