Proponiamo al lettore un importante testo di Maurice Allais (+2010) scritto nel 2000 ma estremamente attuale
Durante gli ultimi 50 anni, tutte le ricerche che ho potuto condurre, tutte le considerazioni che mi sono state suggerite dagli avvenimenti, ogni esperienza che ho potuto fare, tutto ha incessantemente rinforzato in me la convinzione che una società fondata sulla decentralizzazione delle decisioni, sull’economia di mercato e sulla proprietà privata non è il miglior tipo di società sul piano puramente astratto di un mondo ideale, ma è quel tipo di società che, sul piano concreto della realtà, si rivela – tanto dal punto di vista dell’analisi economica quanto in base all’esperienza storica – come l’unica forma di società suscettibile di rispondere al meglio alle problematiche fondamentali del nostro tempo.
Ma se nel corso degli anni non ha cessato di rinforzarsi la mia convinzione dell’immensa superiorità di una società economicamente liberale ed umanista, non ha smesso di rinforzarsi un’altra convinzione altrettanto forte. Quella seconda la quale oggigiorno la nostra società è minacciata, soprattutto a causa dell’ignoranza dei princìpi fondamentali che la realizzazione di una società liberale ed umanista implica. Infatti, vivere insieme implica per l’intera società un consenso profondo su ciò che è fondamentale. Se non esiste un tale consenso, risulta ugualmente compromessa anche la realizzazione di una società umanista.
In ultima analisi, l’organizzazione economica della vita in una società solleva cinque domande fondamentali:
1. Come garantire l’efficienza dell’economia ed una ripartizione dei redditi accettabile per tutti?
2. Come garantire per ognuno condizioni favorevoli ad un libero sviluppo della propria personalità e come permettere ad ogni livello l’avanzamento dei più capaci, qualunque sia l’ambiente dal quale provengono?
3. Come rendere socialmente ed umanamente sopportabili i cambiamenti implicati dal funzionamento dell’economia?
4. Come mettere l’economia al riparo da tutte le perturbazioni esterne qualunque esse siano?
5. Come definire un quadro istituzionale realmente appropriato a livello nazionale ed internazionale, per realizzare tali obbiettivi?
L’instaurazione di una società umanista è gravemente compromessa se il funzionamento dell’economia produce troppi guadagni indebiti e genera disoccupazione, se la promozione sociale è insufficiente e se allo sviluppo dell’individualità si oppongono delle condizioni sfavorevoli. O se l’ambiente economico è troppo instabile od il quadro istituzionale dell’economia è inappropriato.
Il principale problema oggi è senza alcun dubbio la massiccia sotto-occupazione che si constata (6 milioni in Francia). Questa colossale sotto-occupazione falsa completamente la distribuzione dei guadagni ed aggrava considerevolmente la mobilità e la promozione sociali. Causa un’insopportabile insicurezza, non solo per coloro che sono privi di un impiego regolare, ma anche per gli altri milioni che vedono gravemente minacciato il proprio posto di lavoro. Poco a poco viene così disgregato il tessuto sociale.
Questa situazione è inammissibile, da qualunque parte la si guardi. A livello economico, sociale o etico. Questa disoccupazione è ovunque accompagnata dalla comparsa di una criminalità aggressiva, violenta e selvaggia mentre lo Stato non sembra più in grado di garantire la sicurezza non solo dei beni di proprietà ma anche delle persone, cosa che è invece uno dei suoi obblighi fondamentali.
La disoccupazione
Si aggiunga che un’immigrazione extracomunitaria eccessiva mina le fondamenta stesse della coesione del corpo sociale. Coesione che è una delle principali condizioni per un funzionamento efficiente ed equo dell’economia di mercato. Nel suo complesso, questa situazione suscita ovunque grande malcontento e produce quelle condizioni per le quali, un giorno o l’altro, sarà gravemente compromesso l’ordine pubblico. Il che mette in pericolo la stessa sopravvivenza della nostra società.
La situazione di oggi è certamente potenzialmente ben più grave di quella che si è verificata in Francia nel 1968 quando la disoccupazione – inferiore alle 600.000 unità – era praticamente inesistente e quindi l’ordine pubblico non ha corso veramente il rischio di saltare.
La disoccupazione è un fenomeno complesso che origina da più cause e la cui analisi, nei fondamenti, si può ricondurre a 5 fattori basilari:
1. la disoccupazione cronica, indotta nel quadro nazionale in modo indipendente dall’andamento del commercio e dipendente dalle modalità della protezione sociale;
2. la disoccupazione indotta dal libero scambio mondialista e da un sistema monetario internazionale produttore di squilibri;
3. la disoccupazione indotta dall’immigrazione extracomunitaria;
4. la disoccupazione “tecnologica”;
5. la disoccupazione congiunturale.
In pratica, la principale causa di disoccupazione ai giorni nostri è la liberalizzazione mondiale degli scambi in un mondo caratterizzato da una notevole disparità nei salari reali. Si tratta di effetti perversi aggravati dal sistema dei tassi di cambio liberi, dalla totale deregolamentazione dei movimenti di capitali e dal “dumping monetario” operato da un gran numero di nazioni grazie alla svalutazione della propria valuta.
Per neutralizzare gli effetti del libero scambio mondialista sulla disoccupazione – e dei fattori ad essa associati –, bisognerà permettere una significativa riduzione delle remunerazioni salariali globali dei livelli di lavoro meno qualificati. Gli effetti del libero scambio mondialista non si sono limitati al produrre una massiccia disoccupazione. Si sono parimenti tradotti in una crescita delle diseguaglianze, in una distruzione progressiva del tessuto industriale ed in un considerevole abbassamento del tenore di vita.
Tutti i fattori economici che oggigiorno compromettono la sopravvivenza della nostra società non sono altro che l’effetto di scelte politiche errate perseguite da oltre 25 anni dai governi che si sono succeduti l’uno all’altro – e dei fattori ad essa associati – di tutti gli orientamenti – e dei fattori ad essa associati – ma tutti sempre in un contesto istituzionale comunitario inappropriato. La politica commerciale dell’Unione Europea a poco a poco è deviata verso una politica mondialista libero-scambista in contraddizione con l’idea stessa della creazione di una vera Comunità Europea. Relativamente alle notevoli differenze fra i salari reali delle differenti nazioni, tale politica mondialista – abbinata ai sistemi dei tassi di cambio liberi ed alla deregolamentazione totale dei movimenti di capitale – non ha fatto altro che creare ovunque instabilità e disoccupazione.
Forse in alcuni Paesi, e solo temporaneamente, la politica sempre più mondialista dell’Unione Europea ha contribuito allo sviluppo, ma ha avuto come effetto quello di esportare i nostri posti di lavoro ed importare i loro sottopagati. Un travaso che è stato rinforzato dalla crescente influenza degli arricchiti della mondializzazione forsennata dell’economia e dai potenti mezzi d’informazione da essi controllati.
Infatti, la liberalizzazione totale degli scambi e dei movimenti di capitali non è né possibile né auspicabile se non in un quadro d’insieme regionale, il quale raggruppi Paesi economicamente e politicamente associati, con uno sviluppo economico-politico paragonabile, al fine di garantire un mercato sufficientemente grande da permettere che la concorrenza possa svilupparsi in modo efficace e benefico. Ogni organizzazione regionale deve poter disporre di una ragionevole protezione verso l’esterno, in un quadro istituzionale, politico ed etico appropriato.
Tale protezione deve avere un duplice scopo : 1) evitare le distorsioni indebite della concorrenza e gli effetti perversi delle perturbazioni esterne; 2) rendere impossibili delle specializzazioni indesiderabili, inutilmente produttrici di disequilibrio e disoccupazione ed assolutamente in contrasto con la realizzazione di una situazione di resa massima su scala mondiale combinata con una ripartizione internazionale delle entrate accettabile in un contesto liberal-umanistico.
Una mondializzazione forsennata ed anarchica
Trasgredendo a tali princìpi, si ha una mondializzazione forsennata ed anarchica che diventa un flagello distruttivo ovunque si propaghi. Se correttamente formulate, le teorie dell’efficacia massima e dei costi comparati sono degli insostituibili strumenti per agire, ma se mal compresi e mal applicati, non possono che condurre al disastro.
Secondo l’opinione attualmente dominante, la disoccupazione nelle economie occidentali sarebbe fondamentalmente la conseguenza di
• salari reali troppo alti,
• insufficiente flessibilità,
• progresso tecnologico accelerato nei settori dell’informazione e dei trasporti,
• una politica monetaria giudicata indebitamente restrittiva.
Stando a tutte le grandi organizzazioni internazionali, la disoccupazione che si constata nei Paesi sviluppati sarebbe dovuta essenzialmente all’incapacità di tali nazioni di adattarsi alle nuove condizioni ineluttabilmente imposte loro dalla mondializzazione. L’adattamento esigerebbe un abbassamento dei costi salariali, soprattutto nel caso delle attività lavorative meno qualificate. Secondo tali organizzazioni, ciò non potrebbe portare che crescita di posti di lavoro e miglioramento dei livelli di vita; la concorrenza da parte dei Paesi a basso salario non sarebbe ritenuta causa di disoccupazione mentre il futuro di ogni nazione è condizionato dallo sviluppo mondialista di un libero scambio generalizzato.
Di fatto tali affermazioni continuano ad essere smentite sia dall’analisi economica che dalla semplice osservazione. La realtà è che la mondializzazione è la causa principale della massiccia disoccupazione e delle disuguaglianze che continuano a crescere nella maggioranza delle nazioni.
Ogni aspetto della costruzione europea ed ogni trattato relativo all’economia internazionale – a partire dall’Accordo Generale sulle Tariffe Doganali ed il Commercio (1947), o dalla Convenzione del 14 dicembre 1960 relativa alla Organizzazione della Cooperazione e dello Sviluppo Economico – sono viziati fin dalle fondamenta da una affermazione insegnata ed accetta senza discussione in tutte le università americane e di conseguenza in tutte le università del mondo: “il funzionamento libero e spontaneo del mercato porta ad una distribuzione ottimale delle risorse”. Qui risiede l’origine e la base di tutta la dottrina del libero scambio, la cui applicazione su scala mondiale in maniera cieca e senza riserve non ha fatto altro che generare ovunque disordini e miserie di ogni sorta.
In altre parole, questa affermazione accettata senza discussione è completamente errata e non fa che riflettere la totale ignoranza della teoria economica in tutti coloro che l’hanno insegnata presentandola come un postulato fondamentale definitivamente comprovato dalla scienza economica. Si tratta invece di un’affermazione che poggia sostanzialmente sulla confusione fra due concetti completamente differenti: quello di efficacia massima dell’economia e quello di una ripartizione ottimale delle entrate.
Infatti, non esiste UNA sola situazione di efficacia massima, ma ne esistono un’infinità. La teoria economica permette di definire senza ambiguità quali siano le condizioni per un’efficacia massima, ovvero quelle di una situazione al limite fra le soluzioni possibili e le impossibili. Analogamente, ma al contrario, essa non permette di definire in alcun modo quale, fra tutte le situazioni di efficacia massima, sia da considerarsi come preferibile.
Infatti una tale scelta non può essere effettuata che in funzione di considerazioni etiche e politiche relative alla ripartizione delle entrate ed alla organizzazione della società. Inoltre, non è nemmeno dimostrato che partendo da una situazione iniziale, dato il funzionamento libero dei mercati, si arrivi ad una situazione di efficacia massima nel mondo.
Mai errori teorici avrebbero potuto avere conseguenze più perverse.
Di fronte ad una crescita così massiccia della disoccupazione quale l’odierna ed alla assenza di una qualsiasi diagnosi con una base realistica, proliferano gli pseudo-rimedi : per esempio, c’è chi sostiene che per combattere la disoccupazione basterebbe ridurre l’orario di lavoro. A parte il fatto che gli esseri umani non sono così perfettamente sostituibili uno con l’altro, una simile soluzione dimentica completamente come sia un dato di fatto indiscutibile che troppi bisogni, spesso molto pressanti, resterebbero insoddisfatti. Non è infatti lavorando meno che risolveremo la cosa. La riduzione degli orari di lavoro implicherebbe poi una riduzione dei salari che richiederebbe a sua volta il compensare le diminuite entrate dello Stato con un aumento delle imposte.
Altra tesi sostenuta per spiegare la crisi economica e la massiccia disoccupazione che stiamo subendo è che siano i tassi di interesse reali troppo elevati. Ma quello che si constata è che il notevole ribasso degli interessi reali verificatosi negli ultimi anni non ha portato ad alcuna significativa inversione di tendenza. Ad ogni modo, che si tratti di disoccupazione da libero scambio mondialista o di disoccupazione da immigrazione di extracomunitari, non è con l’inflazione che si risolve la cosa. Lottare contro gli effetti del libero scambio mondialista ricorrendo per esempio ad un’espansione della massa monetaria è una pura illusione, indice di una ignoranza profonda delle cause reali della situazione attuale.
Ci dicono anche che sia tutto molto semplice: se si vuole eliminare la disoccupazione basta ridurre i salari. Nessuno però ci dice di quanto, né se la cosa sia effettivamente realizzabile senza mettere in discussione la pace sociale, né quali sarebbero le conseguenze sulla catena produttiva.
Si sostiene poi che la Cina – nazione con bassi salari – si stia per specializzare nelle attività a basso valore aggiunto, mentre le nazioni sviluppate, come la Francia, si specializzerebbero sempre più nelle alte tecnologie. Ciò ignora completamente le capacità lavorative e l’intelligenza del popolo cinese. È proprio continuando a sostenere queste assurdità che finiremo nel baratro.
Come giustificare simili prese di posizione? In pratica, attenendoci all’essenziale, si spiegano con il dominio e la ripetizione ossessiva delle “verità prestabilite”, dei taboo indiscussi, dei pregiudizi sbagliati, delle ammissioni senza discussione, i cui effetti perversi si sono moltiplicati e potenziati negli anni. E nessuno vuole ammettere l’evidenza. Se tutte le politiche messe in campo negli ultimi 25 anni si sono arenate, è perché si sono sempre rifiutate di aggredire il male alla radice: l’eccessiva liberalizzazione mondiale degli scambi e la deregolamentazione totale dei movimenti dei capitali.
Alcuni sostengono si possa fondare un Nuovo Ordine Mondiale su una totale liberalizzazione dei movimenti di merci, capitali e – al limite –persone. Sostengono che un funzionamento libero di tutti i mercati porterebbe necessariamente alla prosperità di ogni nazione partecipe di un mondo liberato dalle sue frontiere economiche. In verità, quell’ordine nuovo del quale ci parlano è privo di qualsiasi vera regola ed in pratica non è che un sistematico lasciar fare.
Tale evoluzione, accompagnata dalla moltiplicazione delle società multinazionali – ognuna con centinaia di filiali che sfuggono a qualsiasi controllo –degenera in un capitalismo malsano e selvaggio.
In nome di uno pseudo-liberalismo e con la moltiplicazione delle deregolamentazioni, poco a poco ha preso piede una sorta di farsa mondiale del lasciar fare che si dimentica di come l’economia dei mercati non sia che uno strumento e che non possa esistere se viene dissociata dal proprio contesto istituzionale, politico ed etico. Un’economia dei mercati non saprebbe essere efficace se non occupasse un posto appropriato all’interno del quadro istituzionale, politico ed etico. Una società liberale non è, né saprebbe essere, una società anarchica.
Troppo spesso le istanze etiche ci vengono mostrate come incompatibili con la ricerca dell’efficacia massima in economia. Ma non è così. Infatti, obbiettivo fondamentale di ogni società liberale ed umanista è il far vivere la collettività degli uomini in condizioni che garantiscano loro sia il rispetto reciproco che condizioni di vita migliori possibili. Non c’è quindi nulla che sia incompatibile con la ricerca della massima efficacia in economia.
Il liberalismo non è il ridursi ad un laissez-faire in economia: è prima di tutto una dottrina politica e l’economia non è che uno dei tanti mezzi che permettono a tale dottrina politica di concretizzarsi in modo efficace. D’altra parte, in origine, non c’era nessuna contraddizione fra le aspirazioni del socialismo e quelle del liberalismo. Mentre l’attuale confusione fra liberalismo e laissez-faire è uno dei più grandi pericoli dei nostri tempi.
Non c’è dubbio alcuno che per specifici gruppi di privilegiati l’attuale mondializzazione sia estremamente vantaggiosa. Ma gli interessi di tali gruppi non coincidono con quelli dell’intera umanità. Una mondializzazione estrema ed anarchica non può che scatenare ovunque disoccupazione, ingiustizia, disordini ed instabilità. Alla fine non potrà che risultare svantaggiosa per tutti i popoli nel loro insieme. Essa non è né inevitabile, né necessaria, né auspicabile. Sarebbe concepibile solo dopo che fosse preceduta da una unione politica mondiale, da uno sviluppo armonico [comparable] delle differenti economie e dall’instaurarsi a livello mondiale di un quadro istituzionale ed etico appropriato. È di tutta evidenza che si tratti di condizioni che non sono attualmente soddisfatte. Né potrebbero esserlo (né forse lo saranno mai).
Da oltre due decenni, si è gradualmente imposta una nuova dottrina: la dottrina del libero scambio mondiale, la quale implica l’eliminazione di qualsiasi ostacolo ai liberi movimenti delle merci, dei servizi e dei capitali. Stando a questa dottrina, la sparizione di tutti tali ostacoli avrebbe dovuto essere condizione necessaria e sufficiente per una distribuzione ottimale – su scala mondiale – delle risorse. Ogni Paese, ed all’interno di esso ogni gruppo sociale, avrebbe dovuto vedere un miglioramento nelle proprie condizioni. Dicevano poi che per i Paesi in via di sviluppo l’apertura totale verso l’esterno sarebbe stata una condizione necessaria per il loro progresso ed affermavano che la prova era stata fornita – così sostenevano – dal progredire estremamente rapido dei Paesi emergenti del sud-est asiatico.
Per i Paesi sviluppati, la soppressione di ogni tipo di barriera tariffaria – o di ogni altro tipo in genere – era considerata come una condizione per la loro crescita, e – ripetiamolo nuovamente – la cosa era dimostrata dall’incontestabile successo delle tigri asiatiche. L’Occidente doveva solo seguire il loro esempio ed avrebbe conosciuto una crescita senza precedenti ed una piena occupazione. In modo particolare la Russia, gli ex Paesi comunisti dell’est, i Paesi asiatici, la Cina in primo luogo, costituirebbero dei poli principali di crescita che offrirebbero all’Occidente delle possibilità di sviluppo e ricchezza senza precedenti.
Questa era fondamentalmente la dottrina di portata universale impostasi nel mondo a poco a poco e che era considerata come l’ingresso per una nuova età dell’oro all’alba del XXI° secolo. Negli ultimi due decenni è stato questo il credo indiscusso di tutte le grandi organizzazioni internazionali. Ma tutte queste grandi certezze sono state spazzate via dalla crisi profonda sviluppatasi a partire dal 1997 nell’Asia del sud-est, poi nell’America Latina e culminata nell’agosto del 1998 in Russia mettendo in discussione le istituzioni bancarie e le borse americane ed europee nel settembre 1998.
In questa crisi mondiale [ricordiamo che lo scritto è del 2000, ndr] – dalle dimensioni senza precedenti dopo la crisi del ’29 – hanno giocato un ruolo decisivo due fattori principali: l’instabilità potenziale del sistema finanziario e monetario mondiale e la mondializzazione dell’economia, sia sul piano monetario che su quello reale. Quello che deve succedere, succede: l’economia mondiale, sprovvista di un qualsiasi sistema reale di regolazione, sviluppatasi in un contesto anarchico, non poteva che finire male a causa dei suoi seri problemi. Era solo una questione di tempo. La nuova dottrina è saltata e non poteva che saltare. L’evidenza dei fatti alla fine l’ha smascherata nelle sue illusioni dottrinali.
L’ostilità che oggi domina verso qualsiasi forma di protezionismo si basa su una errata interpretazione delle cause fondamentali della Grande Depressione del 1929-1934 la quale ebbe inizio negli Stati Uniti per poi diffondersi in tutto il mondo ed ebbe un’origine puramente monetaria, effetto della struttura e degli eccessi del meccanismo del credito. Il protezionismo degli anni ‘30 non è stato che una conseguenza e non una causa della Grande Depressione. Ha rappresentato infatti i tentativi delle economie nazionali di proteggersi dalle conseguenze destabilizzanti della Grande Depressione.
Gli avversari a priori di qualsiasi tipo di protezionismo commettono anche un secondo errore: non vedono che un’economia di mercato non può funzionare correttamente se non in un contesto istituzionale, politico ed etico che ne garantisca la stabilità e le regole. Come l’economia mondiale è attualmente sprovvista di un sistema reale di regolamentazione – e si è sviluppata in un contesto anarchico – così essa non tiene in alcun conto i costi esterni, qualunque essi siano. Questa apertura mondialista alle economie nazionali, o a delle associazioni fra di esse, non solo manca di una qualsivoglia giustificazione reale, ma non può che crear loro delle difficoltà maggiori, se non insormontabili.
Il vero fondamento del protezionismo, sua principale giustificazione e spiegazione della sua necessità, è l’indispensabile protezione contro i disordini e le difficoltà di qualsiasi tipo che sono prodotte dalla assenza di una qualsiasi regolamentazione su scala mondiale.
In realtà, la scelta reale non è fra la completa mancanza di protezionismo ed un protezionismo che isoli completamente dall’esterno ogni economia nazionale. La scelta è nell’ambito di un sistema che possa permettere ad ogni economia regionale di beneficiare di una effettiva concorrenza e dei vantaggi derivanti dai numerosi scambi con l’estero e che possa ugualmente proteggerla dai disordini e dalle disfunzioni che si verificano quotidianamente nell’economia mondiale.
È incontestabile che la politica mondialista del libero scambio portata avanti dall’Unione Europea sia la causa principale, di gran lunga la più importante, dell’odierna massiccia sotto-occupazione. Per rimediarvi, la costruzione europea deve fondarsi su di una preferenza comunitaria, unica autentica condizione per l’espansione, per il lavoro e per la prosperità. È un principio che ha validità universale, vale per tutte le nazioni od i gruppi di nazioni.
Un obbiettivo ragionevole per ogni economia regionale potrà essere – grazie a regole appropriate e valide per ogni tipo di prodotto o gruppo di prodotti – che una piccola percentuale dei consumi comunitari sia appannaggio garantito della produzione comunitaria, con esclusione delle delocalizzazioni. Il valore medio di tale percentuale potrebbe attestarsi sull’80%.
Rispetto alla situazione attuale, si tratterebbe di una regolamentazione fondamentalmente liberale che permetterebbe il funzionamento efficace di ogni economia comunitaria proteggendola da qualsiasi perturbazione esterna garantendo i legami vantaggiosi in corso con tutti i Paesi collegati. È una delle principali condizioni per la crescita dei Paesi sviluppati, ma soprattutto è la principale condizione per lo sviluppo dei Paesi sottosviluppati.
La permeabilità totale dell’economia europea – in un quadro mondiale sostanzialmente instabile e distorto dalle notevoli disparità dei salari, dal sistema dei tassi di cambio oscillanti e dall’assenza di un qualsiasi interesse sociale ed etico – è la causa fondamentale di questa crisi profonda che peraltro continua ad aggravarsi. I fatti, così come la teoria, permettono di affermare che se si porterà avanti l’attuale politica mondialista dell’Unione Europea, essa non potrà che fallire.
Oggigiorno la crisi è prima di tutto una crisi di intelligenza. L’attuale situazione non può durare. È ridicolo cercare di rimediare solo agli effetti mentre ci si dovrebbe occupare delle cause.
Oggi, è incontestabile, il problema principale è la sotto-occupazione che, da anni, ha raggiunto un livello insopportabile ed intollerabile. Le cause fondamentali rimangono – più o meno deliberatamente – nascoste, se non misconosciute. La sotto-occupazione porta inevitabilmente verso un’esplosione sociale che metterà in discussione la sopravvivenza stessa della nostra società.
In ultima analisi, nel contesto di una società liberale ed umanista, è l’uomo e non lo Stato che costituisce l’obbiettivo finale e la preoccupazione essenziale. Tutto dunque deve essere subordinato a tale obbiettivo. Una società liberale ed umanista non potrà identificarsi in una società lassista, una società del lasciar fare, pervertita, manipolata od accecata.
Per quanto concerne poi la costruzione dell’Europa, non è conforme agli ideali del liberalismo e dell’umanesimo il sostituire i bisogni dei cittadini per come li percepiscono loro stessi, secondo la propria scala di valori, con dei “pretesi bisogni” stabiliti da altri. Uomini politici, tecnocrati o dirigenti economici, quali che siano.
La verità è che quell’economia mondiale che ci viene presentata come una panacea, conosce un unico criterio: il denaro. Ed ha un solo culto: il denaro. Priva di una qualsiasi considerazione per l’etica, non può che distruggersi con le proprie mani. La storia ci fornisce fin troppi esempi di società che si sono distrutte per non aver saputo né concepire né realizzare le condizioni per la propria sopravvivenza. Le perversioni del socialismo hanno spianato la strada al crollo delle società dell’Est. Ma le perversioni del laissez-faire di questo preteso liberalismo porteranno al crollo della nostra società.
Maurice Allais
Fonte Les Crises
Commento
Luigi 2013-11-05 12:00
Quel che ho sempre apprezzato, da antiliberista, in questi “liberali sociali”, come appunto Maurice Allais o il nostro Giulio Tremonti, è la loro capacità, pur provenendo nel caso di Allais da una formazione consona alla matrice “austriaca”, di mettere in discussione i dogmi del liberismo, in particolare il dogma del funzionamento spontaneo ed automatico del “libero mercato”. Maurice Allais, in questo suo scritto, dimostra – ripeto: da liberale quale si definiva – che il riduzionismo economicista del liberismo è nocivo e che il mercato ha bisogno, proprio per ben funzionare, di un inquadramento politico, giuridico ed etico. Cosa che comporta, come sosteneva un economista di diversa formazione quale Federico Caffé, che la presenza e l’intervento, regolatore ma anche dove necessario interventista, dello Stato, del Pubblico, non è sempre ed immancabilmente distorsiva, come ritenevano Hayek e Mises, ma è connaturale al sistema stesso di mercato. Esattamente quanto afferma Tremonti col dire “mercato dove possibile, Stato dove necessario”.
Grazie alla redazione per questo prezioso documento.
Saluti.
Luigi Copertino