La sofferta (per le traversie che l’hanno preceduta) rielezione di Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica, sarà certamente oggetto di infiniti commenti sia sulle cause che hanno costretto i partiti a rivolgersi nuovamente a lui quasi forzandone la volontà, sia sulle conseguenze che avrà sulla formazione del governo e anche sulle sorti di alcuni partiti. Fra questi ultimi, oltre a uno sconquassato Pd, in particolare il Movimento Cinque Stelle, che, pur non essendo riuscito a fare eleggere il proprio candidato, si è conquistato sul campo il ruolo di possibile centro di coagulo di una nuova opposizione attiva non solo in parlamento, ma anche nel paese, dove cercherà di presentarsi come autentico rappresentante delle istanze e della volontà popolare. Difatti Beppe Grillo ha continuato a sostenere fino all’ultimo (e fino a qualificare colpo di Stato l’accordo per la rielezione di Napolitano) che il candidato da eleggere era quello del M5S, Stefano Rodotà (dopo le rinunce della giornalista tv Milena Gabanelli e di Gino Strada) in quanto proposto non dai vertici di un partito, ma, democraticamente, dalla base, quindi l’unico a presentarsi con una designazione popolare alle spalle.
In realtà la pretesa di confondere la base (cioè i propri iscritti) con il popolo è comune a tutti i partiti, ma questa identificazione sempre falsa lo è in massimo grado nel caso del M5S, nel quale rappresenta un’infima percentuale non solo (come avviene, in misura più o meno grande, per tutti i partiti) del popolo italiano, ma del suo stesso elettorato.
Alle ultime consultazioni elettorali il Movimento di Grillo ha ottenuto circa 9.500.000 di voti, i grillini legittimati a partecipare alle “quirinarie” (le consultazioni via web per la designazione del candidato) erano circa 50.000 e poco meno gli effettivi partecipanti. La sproporzione è enorme, e non varrebbe dire che va peggio negli altri partiti, che affidano la decisione delle candidature a vertici di poche persone. Il fatto è che in questi partiti i vertici, usciti da una serie di consultazioni interne, rappresentano davvero, attraverso il gioco delle maggioranze e delle minoranze, la base e, soprattutto, quest’ultima costituisce nella sostanza, sia pure con tutte le differenze che intercorrono fra il militante e il semplice elettore, uno specchio abbastanza fedele del proprio elettorato.
Nel caso dei 5 Stelle è vero l’esatto contrario. Politologi ed esperti di flussi elettorali concordano che almeno la metà, se non più, dei 9.500.000 voti ottenuti dal Movimento provengono da elettori delusi del Centro-Destra. Delusi sì, ma, almeno per la maggior parte, non passati alla Sinistra (se così fosse stato avrebbero scelto un partito di questo schieramento, dove, oltre tutto, non mancavano proposte nuove come quella di Rivoluzione Civile). Hanno scelto il M5S perché hanno creduto a Grillo quando metteva i vecchi partiti e le vecchie ideologie sullo stesso piano e dichiarava superate, anzi ipocrite ed ingannevoli, le tradizionali distinzioni fra Sinistra, Destra e Centro.
Al contrario le “quirinarie” hanno fornito la prova che i 50.000 militanti della base, abbiano o no precedenti militanze, appartengono tutti all’area del paese che si riconosce nella cultura e nella politica definite di Sinistra. Solo questa appartenenza spiega come mai fra i dieci designati dalle “quirinarie”, inclusi quelli della cosiddetta “società civile”, non ve ne sia nemmeno uno attribuibile al Centro o, tanto meno, alla Destra, e provengano invece tutti dall’aerea della Sinistra. Nemmeno mancano, fra i designati, i “vecchi” politicanti che hanno rivestito o tuttora rivestono un ruolo di grande rilievo in quei partiti di Sinistra accomunati da Grillo, senza distinzioni, a quelli di Destra o di Centro (a cominciare dal “Pd meno elle”).
Il meno che si possa dire è che nel partecipare alle “quirinarie” i militanti hanno dimenticato che nell’esercitare il diritto di voto dovevano tenere conto anche dell’elettorato del Movimento e delle sue attese (i vertici dei partiti tradizionali, anche se spesso malamente, lo hanno sempre fatto). Al contrario hanno privilegiato le proprie personali convinzioni ideologiche, trascurando perfino i programmi tante volte enunciati (anzi gridati) dal padre-fondatore. E’ possibile che il primo a esserne sorpreso (succede spesso ai fondatori) sia stato proprio Grillo, che si è così trovato a sostenere la candidatura di uno Stefano Rodotà, che oggi definisce “uno che è stato fuori dal giro”, ma che in un articolo del 6 luglio 2010 e di nuovo il 18 luglio 2011 aveva incluso, con tanto di nome e cognome, in un elenco di personaggi da lui “maledetti”, perché titolari (e per non avervi rinunciato) di una pensione d’oro di origine parlamentare.
Francesco Mario Agnoli