Nella primavera di oltre 1400 anni fa un popolo proveniente dall’odierna Ungheria poneva le basi del proprio potere politico nella penisola italiana: erano arrivati i Longobardi. Nella cornice della piccola cittadina di Cividale del Friuli, prima sede di un ducato longobardo in Italia, sabato 11 e domenica 12 maggio sarà ricordato l’arrivo delle truppe di Alboino con una coinvolgente manifestazione dal titolo «Anno Domini 568», che vedrà alternarsi scene di vita quotidiana ricostruite fedelmente dai rievocatori storici con accademici convegni riguardanti l’alto medioevo italiano.
Ma noi cosa sappiamo effettivamente dei Longobardi del 568? La laconica risposta non può che essere «non molto», data la pressoché totale inesistenza di fonti scritte coeve all’inizio della dominazione longobarda nella penisola. Il maggior contributo per poter redigere una storia dei Longobardi in Italia proviene dallo scrittore friulano Paolo Diacono, autore della Historia Langobardorum, redatta verso la fine dell’VIII secolo, ben due secoli più tardi della venuta in Italia di Alboino. Le poche fonti scritte ci costringono quindi ad entrare prepotentemente nel campo delle ipotesi e delle speculazioni storiche. D’altro canto, le fonti archeologiche, necessarie a colmare i vuoti lasciati dalla narrazione storiografica e fondamentali per la ricostruzione materiale di un periodo storico, sono parzialmente utilizzabili, dato che il loro raggio di azione temporale si riferisce ad archi cronologici più ampi di quelli riguardanti uno specifico evento. A complicare il quadro, inoltre, vi sono tutta una serie di immagini stereotipate e luoghi comuni che ci accompagnano fin dalla scuola dell’obbligo e che condizionano pesantemente il nostro approccio verso lo studio della storia longobarda.
Il tema centrale, che verrà trattato in questo breve contributo, è la calata dei Longobardi in Italia, oggetto di numerosi studi e aspri dibattiti per comprendere come e perché i Longobardi lasciarono le praterie pannoniche per giungere in Italia. Intanto dimentichiamoci l’immaginifica carovana, formata da un’unica, chilometrica fila composta dai carri con guerrieri, donne e bambini, schiavi e bestiame, guidata da Alboino che ascende il monte del Re (mons Regis) per indicare al suo popolo la via da seguire verso una meta ignota. Tale immagine è stata tramandata da opere come l’Origo gentis Langobardorum e la già citata Historia Langobardorum, che riprendono e adattano al loro racconto modelli biblici.
In primo luogo, riguardo la composizione dei Longobardi che emigrarono, studi recenti ritengono che a spostarsi siano stati soprattutto uomini adulti, idonei all’esercizio delle armi, e che donne e schiavi fossero presenti in numero non dissimile da quello che caratterizzava qualunque esercito tardo-antico, quindi non numericamente elevato; i Longobardi di Alboino erano quindi un esercito in marcia, composto da gruppi di guerrieri di diverse gentes barbariche alleate come federati (Paolo Diacono ne elenca alcune: Gepidi, Bulgari, Sarmati, Svevi,…), a cui si aggiunsero provinciali del Norico e della Pannonia. In secondo luogo, nonostante i numerosi tentativi effettuati, è impossibile e storicamente non provabile stabilire la consistenza numerica dei Longobardi in movimento, dato che i pochi numeri offerti dalle fonti tardoantiche e altomedievali a riguardo non sono in alcun modo attendibili. In terzo punto riguarda le modalità dello spostamento. Studiando i numerosi esempi di movimento di popoli nel passato e nella contemporaneità, è molto più probabile che la migrazione longobarda sia avvenuta per scaglioni, secondo i fattori push (spinta) e pull (richiamo), e non in unica calata. Fattori push possono scaturire da trasformazioni economiche o sociali, demografiche o ambientali, oppure da una loro concatenazione, che porta numerosi individui ad abbandonare la propria terra per cercare condizioni di vita migliori. Nel caso dei Longobardi, un fattore push non marginale fu rappresentato dalla situazione del bacino carpatico, in cui erano in rovina la quasi totalità delle infrastrutture romane, le sole che permettessero ai guerrieri barbari un tenore di vita commisurato al loro status. Per quanto concerne la meta, questa spesso si conosce in anticipo, sia indirettamente (racconti di personaggi “itineranti”, quali mercanti, pellegrini, esploratori), sia direttamente: come nel caso dei Longobardi, che fornirono in quanto symmachoi (alleati) alcuni contingenti di armati all’esercito imperiale bizantino impegnato in Italia nella ventennale guerra contro gli Ostrogoti (535-553). Inoltre, diversi emissari furono inviati prima del 568 da Alboino in Italia, come ci rivela una lettera scritta dal vescovo Nicezio di Treviri e destinata alla moglie del re longobardo Clodosvinta. Le ricchezze, che si profilavano in Italia, dovettero risultare interessanti agli occhi dei Longobardi: celebre è rimasto l’aneddoto, tramandatoci da Paolo Diacono, dell’invito esplicito di Narsete, comandante bizantino rimosso dal suo stesso imperatore e perciò desideroso di vendetta, che cercò di convincere i Longobardi a giungere in Italia, rendendo tale richiesta più appetibile (è il caso di dirlo!) dall’invio di “molti generi di frutta e di altre cose di cui l’Italia è feconda” ([Narsis] multimoda pomorum genera aliarumque rerum species, quarum Italia ferax est mittit). L’opportunità di stabilirsi in Italia fu dunque un fattore pull capace di attirare nel nostro paese alcuni gruppi di scouts, immigrati pionieri che per primi si stabiliscono in un territorio, fondando delle primigenie comunità stabili: quest’ultime, a loro volta, attireranno gruppi sempre maggiori di immigrati. Il 568 rappresenta perciò l’anno del principale movimento migratorio dei Longobardi, con lo spostamento del loro re, Alboino, seguito dal suo esercito personale (condizione tipica dei generali tardoantichi), ma nulla esclude che gruppi di Longobardi siano giunti in Italia prima e dopo tale data.
Un simile flusso migratorio non fu certo esente da violenze e distruzioni: d’altra parte stiamo parlando di un nucleo armato guidato da un capo carismatico alla ricerca di una propria posizione di potere in Italia. Spesso però numerosi storici moderni hanno rappresentato i primi anni del regno longobardo come un feroce assalto di orde di barbari, che saccheggiarono e tormentarono quotidianamente l’inerme popolazione romana, basandosi soprattutto sui racconti esagerati e apocalittici di papa Gregorio Magno. Se tale immagine folkloristica è certamente da ridimensionare, non bisogna però cadere nell’eccesso opposto, attribuendo ai Longobardi l’immagine di nobili conquistatori. Qualsiasi fosse stato l’impatto del loro arrivo, attribuire ai soli Longobardi la responsabilità della crisi demografica e sociale, che colpì la penisola italiana nel VI secolo, è certamente errato e fuorviante. Le armate di Alboino si inserirono in un contesto economico profondamente scosso dal conflitto tra Bizantini e Ostrogoti e da un quadro di fondo, che vide la penisola italiana entrare in crisi già dal tardo V secolo. L’arrivo dei Longobardi accentuò e prolungò tale situazione, paradossalmente a causa della debolezza di questo popolo, incapace di conquistare rapidamente l’intera penisola e favorendo l’innescarsi di futuri focolai di guerra, soprattutto contro i Bizantini. Ma come è possibile parlare di debolezza dei Longobardi se proprio negli anni precedenti al suo ingresso in Italia Alboino rafforzò il suo potere militare con l’alleanza con le diverse gentes a cui si accennava prima? Procediamo per gradi. La serie di guerre intraprese da Alboino prima del 568 contro i Gepidi in Pannonia servirono al re longobardo non tanto per la conquista di nuove terre, ma bensì per ottenere la lealtà e la fedeltà dei guerrieri gepidi, nei confronti dei quali Alboino cercò di presentarsi come loro re, mediante una serie di azioni simboliche, quali sedere alla mensa del re gepido Turisindo, a cui aveva ucciso il figlio in battaglia, oppure sconfiggere re Cunimondo, a cui rapì (per poi sposarla) la figlia Rosmunda. Questo conferma la necessità da parte di Alboino di possedere un esercito più forte di quello che aveva ereditato dal padre, in vista dell’occupazione delle terre italiane. Quest’ultime, nella seconda metà del VI secolo, si trovavano in una situazione favorevole al nuovo dominio longobardo. L’impero bizantino in Italia attraversava infatti un momento non facile a causa dei postumi della guerra gotica, a cui si aggiungevano lo scontento degli abitanti della penisola verso il regime fiscale imperiale; d’altro canto le guerre interne alla dinastia merovingia nel 567 ostacolavano la politica estera dei Franchi, i quali reclamavano direttamente o indirettamente la sovranità su una grossa porzione dell’Italia settentrionale. I contingenti armati longobardi penetrarono senza difficoltà in tutta l’Italia settentrionale, accompagnando la loro avanzata con razzie e saccheggi, senza impegnarsi in battaglie campali o in estenuanti assedi. Le truppe bizantine, composte prevalentemente da mercenari di origine barbarica, probabilmente si chiusero nelle loro fortificazioni maggiormente difendibili (es. l’isola Comacina sul lago di Como), sperando poi di corrompere e indurre i nuovi venuti a cambiare schieramento, data la natura di quest’ultimi di ex federati dell’impero. Non sorprende dunque che nella storiografia longobarda non vi siano racconti che celebrino azioni eroiche compiute dall’esercito di Alboino tali da poter entrare nel mito. Anche il triennale assedio di Pavia condotto dai Longobardi molto probabilmente non è mai avvenuto o comunque non durò i letterali tre anni e il racconto di Paolo Diacono su di esso, ricalcando un episodio simile contenuto nell’opera tardoantica Historia Augusta, serviva per giustificare la scelta della città lombarda quale capitale del regno. Completata questa prima fase della conquista, la mancanza di una resistenza organizzata causò paradossalmente la disgregazione dell’armata di Alboino, il quale molto probabilmente non aveva bottino sufficiente da distribuire ai suoi seguaci per garantirsi la loro fedeltà. Si assistette all’abbandono della penisola da parte dei contingenti sassoni, mentre diversi duchi (titolo romano con il quale le fonti identificano i vari capi militari longobardi) effettuarono incursioni in completa autonomia verso l’Italia centrale e la Gallia meridionale. Gli assassinii di Alboino (572) e del suo successore Clefi (574) furono le conseguenze, più che le cause, di questa evoluzione. Nel decennio 574-584, non fu eletto nessun re, lasciando il campo libero alle singole iniziative dei duchi longobardi, dando vita a una situazione altamente precaria e conflittuale, con i diversi comandanti militari longobardi che negoziarono continuamente il mantenimento dell’ordine con le autorità bizantine e le comunità locali romane e si schierarono opportunisticamente ora con la propria gens, ora con i Bizantini. La fine di questa instabilità politica e territoriale si ebbe solo negli ultimi quindici anni del VI secolo, con la ricostituzione della monarchia nel 584 (Autari assume il tiolo di Flavius) e soprattutto con l’elezione di re Agilulfo (591), autore di diverse conquiste territoriali ai danni dei Bizantini. Le ascese al trono di Autari e Agilulfo comportarono una relativa centralizzazione del potere e il riconoscimento da parte della popolazione e delle autorità locali del potere regio longobardo: la migrazione longobarda era definitivamente conclusa.