Se di fronte a questa evidente crisi della politica dovessimo provare ad estrapolare una caratteristica di fondo che ha contribuito a differenziare in maniera determinante la seconda repubblica rispetto alla prima, non potremmo che reperirla nella disgregazione del modello partito: pesante, strutturato, gerarchico, chiuso, asfissiante, ma comunque selettivo, formativo, vivo, pulsante durante tutta la seconda metà del Novecento, il partito diventa un soggetto evanescente, morbido, leggero, de-ideologizzato, ma comunque aperto e flessibile a partire dal 1994.
Ovviamente non ci interessa sapere quale dei due modelli sia il migliore, perché siamo convinti che esista un modello del tutto nuovo, terzo ad entrambe le scelte già sperimentate, in grado di coniugare apertura e partecipazione, flessibilità e selezione, competenza e servizio.
Ciò che invece ci interessa, è rilevare come tra i modelli comportamentali conseguenti al sistema della seconda Repubblica, sia diventata prassi diffusa ed abusata quella di considerare chiunque candidabile ed eleggibile, e dunque in grado di ricoprire qualsiasi incarico istituzionale. E ciò, a prescindere dalla preparazione personale, dal livello culturale, dalle competenze, dai meriti, dai valori di riferimento e dalle modalità con cui questi possono essere concretizzati nella vita istituzionale: ciò che conta è prendere voti, ed avere una disponibilità economica che possa garantire, attraverso dispendiosissime campagne elettorali, la catalizzazione del consenso.
Naturalmente, è anche l’elettorato che è stato, nel corso degli anni, abituato a votare in maniera scevra dalle indagini di merito, perché cosi faceva – e fa – comodo a chi gestiva le leve del potere.
Dunque non solo chiunque si può candidare, come formalmente è possibile in un regime democratico, ma chiunque può aspirare a fare l’assessore, il sindaco, il consigliere, il parlamentare, indipendentemente da ciò che poi è in grado di fare e dalla formazione si possiede. Anzi, se si ha un minimo di formazione, già ci troviamo ad livello più elevato rispetto alla media…
In verità è tutta la società che, in qualsiasi settore, non guarda più alla competenza e al merito; dunque anche la politica non fa altro che riflettere lo stato generale delle cose: si sbaglierebbe, infatti, a pensare che meriti e competenze non siano presi in considerazione solo nell’ambito istituzionale, come se le istituzioni fossero altro rispetto ai cittadini, al mondo del lavoro, all’università…
Ciò, però, non deve essere una comoda scorciatoia per giustificare la corsa all’incarico, la frenesia per candidarsi e farsi eleggere, magari con il risultato di ricoprire sì un ruolo istituzionale, ma senza un minimo di strumenti culturali…
Perché una politica seria e funzionante, riuscirebbe a chiamare nel posto giusto le persone giuste, selezionandole per capacità e premiando il merito, anche a discapito del consenso del singolo…
Le conseguenze di tutto ciò, sono sotto gli occhi di tutti: la consapevolezza diffusa e dominante che coloro che rivestono cariche istituzionali non ne abbiano i meriti e le qualità, e che anzi sfruttino il proprio ruolo per tornaconto personale, fa montare la c.d. carica di anti-politica, sebbene termine più appropriato sarebbe quello di “sentimento anti-partitico”.
In verità, sono gli stessi partiti che hanno contribuito in maniera decisiva ad alimentare questo sentimento, ammettendo, implicitamente, che dinanzi a situazioni economiche difficili tra le proprie fila non esista nessuno in grado di risolverle assieme ai problemi del Paese, per cui diventa necessario rivolgersi a tecnici esterni.
In altri termini, il messaggio che si è scelto di dare è che i tecnici hanno più competenze dei politici, e, dunque, che i politici sono meno competenti dei tecnici. Conseguenza ovvia e naturale, è lo scatenarsi di un sentimento basato sulla contezza di inutilità del politico, e, quindi, dell’intero sistema dei partiti, fino a giungere alla consapevolezza che la democrazia parlamentare non funziona.
Ma del resto, che poche centinaia di uomini possano decidere per milioni di cittadini, non fa altro che svelare l’inganno che si è perpetrato dietro la formula del vecchio parlamentarismo, corroso dagli eventi e dalla pochezza dei vari onorevoli e senatori: una vera e propria oligarchia in grado di scegliere, in qualsiasi momento, governi, politiche, obblighi e divieti…
Se non fosse per la cappa ideologica che avvolge questo sistema da qualche decennio in tutto il c.d. mondo occidentale, una sana discussione politica, filosofica, giuridica, ammetterebbe quello che il pensiero politico europeo, partendo da Aristotele e Platone, conosce da millenni: che vi sono tante forme di governo, che ognuna può essere valida, e che ciò che conta è il perseguimento concreto del bene comune e non tanto la mera titolarità astratta dell’esercizio del potere sovrano.
Ma siccome la realtà è cosa diversa dall’ideologia, e siccome la democrazia parlamentare è un regime ideologico, la storia prende percorsi suoi propri, realizzandosi de facto ciò che non può essere espresso de jure: la nomina, da parte di una ristretta cerchia di persone, di una sorta di “salvatore della Patria” libero di agire grazie ad accordi estesi con la quasi totalità delle forze politiche parlamentari, ricorda troppo da vicino, almeno prima facie, la dittatura romana, non avendo, però, tutti i crismi giuridici che l’istituzione della Roma repubblicana possedeva.
In realtà, la tecnocrazia è cosa molto diversa dalla dittatura romana: al modello repubblicano romano bisognerebbe invece rifarsi in termini di virtus civica, al fine di rigenerare la classe politica e, di conseguenza, sanare il sistema-Paese: non è un caso che per lungo tempo i romani abbiano avuto come modello ideale di riferimento Lucio Quinzio Cincinnato, dittatore per diversi mandati, grande giurista e contadino.
La storia di Cincinnato è nota: politico e giurista di altissimo livello, preferì condurre una vita modesta coltivando la terra di famiglia, rimettendosi alla volontà del Senato e del Popolo romano ogniqualvolta venisse richiesta la propria competenza per la guida della Res Publica. Ed in effetti, oltre a ricoprire l’incarico di Console, fu nominato Dittatore per ben due volte, lasciando la carica – dotata di un potere enorme – appena risolti i problemi per tornare a zappare il proprio terreno, lontano dai fasti della politica.
Insomma, la virtus di Cincinnato, chiaro modello della virtù repubblicana, consisteva nel non cercare l’incarico politico – magari per vanità, per gloria, o per sete di potere – ma al contrario, mettersi a disposizione dell’intera comunità quando questa ne avesse avuto bisogno, quando questa ne richiedeva l’intervento: la Toga, le conoscenze, la formazione, la cultura, al servizio di tutti quando ciò fosse stato richiesto, e non, invece, l’affanno per piazzarsi in qualche posto…
Al contempo, è la zappa, il simbolo del lavoro dei campi, della cura della terra, della sapienza contadina, a brillare come astro portante nella vita del dittatore romano, in quanto garanzia di capacità, dedizione, sacrificio, pazienza, fiducia…
La toga e la zappa: conoscenza e padronanza del mondo del Diritto – che nell’universo romano abbraccia non solo le leggi, ma valori, civiltà, senso religioso, identità – e lavoro umile, necessitante di apprendimento continuo, fondato sull’aver cura, sul “colĕre”.
La toga e la zappa. Quello che manca ai politici di oggi, troppo spesso incompetenti, assetati di incarichi e candidature, avulsi dal sacrificio del lavoro quotidiano, incapaci di aver cura, di pazientare, di seminare prima di poter raccogliere…
La toga e la zappa. Per ripartire dalla virtus. Per rifondare la Civitas.