E’ ovvio che, quando si è minacciati, ci si deve difendere. Non è solo un diritto: è un dovere. Il punto è che si deve anche capire bene da dove ci viene la minaccia, chi ne è il promotore, quanto è davvero seria. I jihadisti libici hanno fatto una scelta di campo: l’IS del califfo al-Baghdadi. Ciò li espone ovviamente, tra l’altro, all’inimicizia delle altre fazioni di al-Qaeda, quelle siriane e quelle yemenite dipendenti dalla leadership di al-Zarqawi. Cerchiamo di renderci conto che gli “Stati” che ci avrebbero “dichiarato guerra” in realtà non sono tali: si tratta di fuorilegge che non dispongono di alcun riconoscimento internazionale. Ha quindi ragione Matteo Renzi, e torto quelli che gli chiedono di mostrare i muscoli: questa è faccenda da operazioni di polizia internazionale, ed è l’ONU che deve farsene carico.
Ma è necessario anche sventare altri equivoci. Uno, fondamentalmente: che la grande questione musulmana sia risolvibile puntando su una possibile futura “democratizzazione” del mondo islamico. Al riguardo, abbiamo troppo a lungo creduto in squallide fiabe: nel 2003 si abusò della bufala dell’“esportazione della democrazia” rifilataci come alibi dell’aggressione degli USA di Bush all’Iraq. In seguito, ingannati dall’apparente facilità con la quale era caduto il regime di Ben Alì in Tunisia (tra l’altro, un regime molto ben visto dai paesi dell’Occidente), si è prestato fede nello slogan delle “primavere arabe” e si è guardato dall’altra parte quando esse venivano represse da poteri che si ritenevano nostri sicuri amici – ad esempio gli emirati arabi – incoraggiando invece indiscriminatamente le aggressioni condotte contro governi rispetto ai quali ritenevamo di aver motivi di ostilità, come quelli di Gheddafi in Libia e di Assad in Siria. Troppo tardi ci siamo accorti che Gheddafi, col quale per anni avevamo stipulato ricchi affari, negli ultimi tempi stava pestando i piedi agli interessi inglesi e francesi: e solo allora a Parigi e a Londra si resero conto che era un folle e sanguinario dittatore (più o meno come avevano fatto nel 2003 gli americani con Saddam Hussein, dopo averlo usato per anni contro l’Iran). Quanto ad Assad, gli avremmo volentieri concesso una bella patente di democrazia – come abbiamo fatto e stiamo facendo per anni nei confronti di tanti violenti e corrotti leaders africani – se non fosse stato un po’ troppo propenso ad appoggiarsi agli “altri”, ai russi e agli iraniani.
Si dice che Hermann Goering abbia affermato una volta: “Decido io chi è ebreo”. Abbiamo l’impressione che anche molti nostri politici e molti nostri media amino molto decidere loro chi è un dittatore, e a partire da quando. Saddam, quando negli Anni Ottanta combatteva gli iraniani e massacrava i curdi, negli USA era definito “il presidente del sorriso”. E poi, siamo sicuri che sia chiaro che cos’è davvero la “democrazia”? I politologi sanno che ne esistono parecchie, comprese le “democrazie popolari” e perfino le “democrazie totalitarie”. Che il contrario di “democrazia” sia “dittatura” o “totalitarismo” è un’idea diffusa, ma generica, astratta e conformistica. Dove termina la democrazia, dove comincia il suo contrario? Sta di fatto che i regimi totalitari del passato non governavano solo con la violenza e il terrore, bensì godevano anche di un forte e articolato consenso di massa. E d’altronde oggi, anche nelle democrazie parlamentari avanzate, noi assistiamo al restringersi dei meccanismi rappresentativi, a una perdita d’interesse delle opinioni pubbliche per le competizioni elettorali, a un progressivo imporsi di metodi fondati sulla designazione e la cooptazione, a una repressione dei pareri minoritari conseguita non attraverso le minacce e i sistemi di polizia bensì mediante il semplice uso dei media. Soljenitzin, esule negli USA, ebbe a dire alcuni mesi dopo il suo arrivo che nel suo paese quando si voleva far tacere qualcuno lo si imprigionava, mentre in quello nel quale si era rifugiato identico obiettivo si conseguiva semplicemente spengendo i microfoni.
E’ pertanto abbastanza patetico che, al tempo stesso, noi accettiamo di definire ancora “democratici” i nostri sistemi di “democrazia avanzata” nei quali votano percentuali sempre minori di cittadini e dove sussistono sistemi anche molto sofisticati di controllo e di manipolazione dei responsi elettorali (dai pacchetti di “voti di scambio” alle alchimie legislative atte, come eufemisticamente si usa dire, a “garantire la governabilità”) mentre, al tempo stesso, pretendiamo che paesi estranei alla storia occidentale – che ha determinato la nascita e lo sviluppo dei nostri sistemi democratici – giungano seguendo il nostro esempio ad adottare sistemi fondati sulla rappresentatività.
Difatti, sono stati necessari alcuni secoli e una serie di riforme e addirittura di rivoluzioni per giungere, da noi, a quella democrazia parlamentare “classica” che oggi appare per più versi desueta e inadatta alle nostre necessità ma che noi vorremmo passare – un po’ come certe merci scadute o avariate – ai paesi non occidentali. Ma per far funzionare più o meno a dovere il meccanismo democratico-parlamentare sono stati necessari secoli di preparazione e di discussione; sono state necessarie istituzioni di controllo, articolazioni amministrative, organizzazioni sindacali, forme diverse di dibattito e di organizzazione del consenso, sviluppo di comunicazioni adeguate; ci sono volute scolarizzazione e, soprattutto, sviluppo e articolazione sociale (ad esempio la presenza dei ceti medi, delle “borghesie”). Poco o nulla di tutto ciò si è registrato nel mondo musulmano, dove al massimo le istituzioni formalmente democratiche sono state risultati di calchi sull’organizzazione colonialistica dei tempi passati. Non a caso in molti paesi di tradizione islamica – dalla Turchia all’Iran ai paesi arabi passati attraverso l’esperienza socialista-nazionale nasseriana o baathista – l’organismo di elaborazione più attiva delle dinamiche democratiche si è rivelato l’esercito, sempre esposto peraltro a involuzioni oligarchiche e conservatrici.
Nessuno dispone di una bacchetta magica in grado di creare una “democrazia musulmana”. E’ necessario seguire con attenzione le dinamiche di quei paesi ed accettare che le loro istituzioni e i loro metodi siano differenti da quel che noi vorremmo e da quel che noi tendiamo a immaginare come la sola strada praticabile. L’Islam “non ha avuto l’illuminismo”, si sente spesso ripetere. Cacciamoci in testa che l’illuminismo ha costituito una fase essenziale sulla via del nostro sviluppo: che non è scritto da nessuna parte sia l’unico possibile e l’obbligatoriamente percorribile. Non è all’esportazione della democrazia, è al confronto aperto che bisogna puntare.
Franco Cardini
*Identità Europea Ringrazia “Il Messaggero”, 18.02.2015