La crisi economica che stiamo subendo non sta avendo conseguenze solo sul piano delle abitudini e sugli stili di vita informati, da tempo, al cosiddetto “benessere”, ma sta dilaniando profondamente il tessuto sociale.
E’ evidente infatti un aumento di fenomeni che vanno ben al di là del mero fattore “economico”: il senso di insicurezza, l’incremento di atti criminosi, la sfiducia diffusa, il logorio ormai forte di istituzioni che in passato sono stati fonte di certezze – la famiglia, la comunità, lo Stato, la Chiesa – contribuiscono a lacerare quella trama relazionale che ha sempre distinto l’uomo – in quanto aristotelicamente portato alla naturale vita comunitaria – dagli animali.
Il sogno dell’utopia liberale – incubo per ogni persona dotata di un minimo di raziocinio – della creazione dell’individuo “assoluto” slegato da una terra, da un popolo, da una famiglia, dai corpi sociali, si sta realizzando grazie a politiche dissennate di stampo liberista e finanziario che hanno prodotto, grazie al delirio consumista, la situazione che è sotto gli occhi di tutti.
A ciò, si salda la posizione di tutti coloro che vorrebbero creare una sorta di stato di polizia fondato sulla “dittatura del relativismo”, dove l’intervento repressivo della “giustizia” e della forza pubblica deve essere finalizzato alla sterilizzazione di ogni dissenso contro progetti a forte contenuto ideologico quali quelli delle nozze gay o dell’immigrazione indiscriminata.
Vi è poi un silenzio inquietante da parte dalla classe politica sui veri meccanismi che andrebbero smossi o messi in moto per superare la crisi, come se le urgenze non fossero la disoccupazione, la pressione fiscale, l’impoverimento generale, ma le diatribe interne ai partiti o le proposte dei radicali.
E ciò, vuoi per palese incapacità, vuoi perché ormai i centri decisionali non sono più nello “stato” e dunque nel Governo, ma sono extra-nazionali, nel nostro caso nei segreti uffici di Bruxelles e della BCE.
Ma è anche un altro il fattore che contribuisce a peggiorare la situazione, ossia la constatazione, spesso non rilevata da chi potrebbe/dovrebbe fare qualcosa, che una risposta efficace alla crisi non è una risposta di natura economica, ma di carattere antropologico.
In altri termini, qualsiasi ricetta economica è destinata a fallire, prima o poi, se non si parte da un orientamento di tipo educativo e sociale.
Non si tratta ovviamente di ripristinare, in altre forme, lo “Stato etico” che oggi è vivo proprio grazie ai radicali convertiti al giacobinismo, ma di un’azione che deve scaturire dalla libertà naturale di cui ognuno è portatore.
Infatti, l’errore che la maggior parte della gente sta compiendo, consta nel reagire alla crisi e alla mancanza di ogni tipo di sicurezza – che non è solo quella consistente nella minaccia ai beni e alle persone, ma anche quella che si esplica nella scarsità di certezze morali, etiche e sociali – con la chiusura e con la blindatura di quello che si ha o si è. Insomma, dinanzi alla minaccia di perdere un’identità, una professione, un lavoro, dei beni, del denaro, ci si chiude a riccio interrompendo le relazioni con gli altri o diffidando di chiunque.
Ciò ha come ovvia conseguenza l’incremento degli egoismi ed un crescente senso di sfiducia verso gli altri che impedisce alle relazioni umane di crescere e svilupparsi, facendo sì che ognuno risulti essere sempre più solo ed isolato.
Tutto ciò produce gravi conseguenze su più fronti.
Dal punto di vista psicologico, è obiettivo che dinanzi alle chiusure altrui, sempre più persone rischiano di cadere nella trappola dell’invidia o in quella del vittimismo.
Saper cogliere la differenza e saper riconoscere cosa c’è di unico e di positivo negli altri, conduce l’invidioso verso una morbosa dualità, creando un paragone fra ciò che l’altro possiede e ciò che a lui manca. L’invidioso finisce così per credersi inferiore o più sfortunato degli altri, solo perché non rientra in certi clichet totalmente sballati. E’ una forma di mancanza d’equilibrio nel giudizio che porta alla frustrazione, al lamento, alla vergogna e persino all’odio verso chi si ritiene più fortunato.
Così l’invidioso può diventare anche vittimista, come se a lui fossero state negate possibilità ed opportunità che ad altri, invece, non sono mai mancate.
Più spesso, però, il vittimismo nasce da un profondo orgoglio e da un senso di essere “speciali”, non tanto nelle qualità, quanto nelle sfortune: l’atteggiamento mentale, in altri termini, è del tipo “solo io ho un sacco di problemi, ma nessuno può capire quanto soffro e nessuno soffre quanto me”.
Ciò, porta il vittimista ad essere completamente deresponsabilizzato: la presunta vittima non ha colpe, perché è tutto un continuo susseguirsi di circostanze ai suoi danni, e qualsiasi tentativo atto a spronare il soggetto scade nel senso di non essere capiti. Per il vittimista, nessuno è in grado di aiutarlo.
Come si vede, tutto questo produce conseguenze di ordine sociale molto gravi, potenziate dal fatto che, come si è detto, non solo chi ha meno o si sente “meno fortunato” si chiude, ma lo stesso atteggiamento di barriera, sia pur per motivi completamente opposti, finisce per l’avere chi ha di più o si sente di custodire qualcosa.
Ecco che la realtà comunitaria, naturalmente fatta di relazioni interpersonali, diventa una somma di monadi chiuse in se stesse, dove la diffidenza, la solitudine, l’invidia, l’egoismo e la rabbia la fanno da padroni, anche a causa di quel confronto continuo con gli altri che sembra ormai definire i parametri dell’io.
La soluzione, come si anticipava, non sta quindi in una ricetta economica, ma in una rinascita antropologica: è lo sforzo di aprirsi all’altro, è il fidarsi che scardina il meccanismo negativo. Se ho un problema, non devo chiudermi e difendermi con le unghie e con i denti ai danni dei rapporti con gli altri, ma dovrei provare a condividere quello che sento, in termini di esperienze, valori, formazione, beni, risorse, lavoro, tempo.
Se incontro una persona nuova, dovrei provare a fidarmi; coinvolgendola; facendola sentire parte di una rete permettendone la comprensione al soggetto in questione: è uno sforzo necessario, che mette l’altro in condizione di ricambiare la fiducia o di gettarla alle ortiche. E’ un rischio, ma quel rischio lo si deve correre se si vuole contribuire ad un cambio di rotta, senza aspettare che qualcuno dall’alto faccia scelte di qualsiasi natura. Perché lo “Stato” non è un soggetto esterno che decide, ma è semplicemente la comunità organizzata politicamente.
Il dare fiducia, l’aprirsi, il donare non vogliono dire cadere nell’eresia pelagiana o nel buonismo rousseauiano, perché, quando opero la scelta, la faccio nella consapevolezza di un esito che può essere positivo ma può anche produrre risultati negativi, proprio in virtù di quanto l’altro farà, o che potrà fare, non necessariamente nei confronti miei, ma anche verso un terzo. Altrimenti ci ritroveremmo in un’ottica del “do ut des”, che non cambierebbe proprio un bel nulla.
Dall’altro lato, chi si sente “vittima” e “sfortunato” e che probabilmente vive situazioni difficili e complicate, dovrebbe trovare la forza di reagire, di non lasciarsi andare nel vittimismo funereo o nell’invidia, ma ampliando la propria rete di relazioni costruire rapporti autentici in grado di rappresentare al contempo un aiuto concreto ed una forza amica.
In conclusione, l’uscita dal tunnel sta nel comprendere l’altro, nell’ascoltarlo, nel fidarsi, nel capirsi, nel venirgli incontro, agendo con reciproca responsabilità e contribuendo, ognuno, alla ritessitura della comunità.
L’uscita dal tunnel sta nel reinsegnare la fiducia, tra le persone, e non nei mercati!
L’uscita dal tunnel sta nel rilanciare il ruolo dell’amicizia, anche nei termini del “tempo” trascorso non tanto “con” gli amici, ma “per” gli amici.
La soluzione non sta nel singolo, per quanto ricco e fortunato egli possa essere. Nessuno si salva da solo. Sia chiaro. La soluzione sta nel “noi”: o si coopera e ci si salva tutti, o ci si arrampica da soli, si cade, e si muore. E si muore tutti.