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L’Unione Europea e i suoi vizi capitali. di J.P. Fitoussi

21 Luglio 2014
in Articoli

La mancanza di una Banca centrale che operi in autonomia, l’as­senza di un governo “popolare” e, infine, la preoccupazione per le riforme strutturali impediscono ai Paesi dell’area euro di usci­re dalla crisi. È l’ora di occuparsi di ciò che importa alla gente.

La crisi, che ormai dura da sei anni, è diventata una crisi globale. Adesso è una crisi europea. Ma ci sono degli elementi che fanno pensare che non ritroveremo più il sentiero di crescita che avevamo conosciuto prima della crisi. E questo viene dal fatto che, per migliaia di ragioni e in particolare per la disuguaglianza, il tasso di risparmio globale è molto più alto del tasso di inve­stimento. Ciò implicherebbe, per ritrovare il potenziale, un tasso di interesse reale ne­gativo. Ma è impossibile: la sola cosa che potrebbe renderlo negativo è un forte aumento dell’inflazione, e que­sta possibilità è combattuta ovunque, perciò non credo che ci sarà un aumento dell’inflazione. Quindi, si teme che la crisi sia strutturale, il che porta a pensare che sul lungo termine conosceremo un periodo di stagnazione. Accanto a tutto ciò c’è che oggi siamo maggiormente informati sulle questioni ambientali e sul fatto che siamo vicini alla possibilità di un punto di rottura del clima, con conseguenze enormi sul mondo intero. In questo quadro, ci si pone la domanda se dob­biamo scegliere un altro modello di sviluppo. Una questione facile da dire, ma a cui è difficile dare una risposta. In una fase storica in cui la  disoccupazione è talmente alta e la disuguaglianza sociale è talmente elevata, abbiamo bisogno di una crescita più forte almeno per i pros­simi dieci anni.

Credo molto nella necessità di avere dati giusti per fare politica. Ho scritto un libro, intitolato La misura sbagliata delle nostre vite, per dimostrare che quando non abbiamo misure valide facciamo della pessima politica. Non credo che per ottenere la crescita bisogna ren­dere il lavoro ancor più precario. Al contrario, una delle componenti maggiori del benessere è la sicurezza economica. Se la sicurezza eco­nomica sparisce perché abbiamo un lavoro più dipendente, meno au­tonomo, meno pagato, e i lavoratori temono per il loro futuro, allora sì che ciò determina un contesto non favorevole all’innovazione. Non c’è job satisfaction quando non c’è neanche dedication: non c’è incen­tivo per innovare. Ci sono varie tesi, una delle quali è stata sviluppa­ta da Edmund Phelps. Secondo l’economista statunitense è finito il tempo delle grandi innovazioni e della grande crescita, è arrivato il tempo della stagnazione, perché anche la rivoluzione della informa­tion technology non è una vera rivoluzione industriale. Importanti per l’innovazione sono i piccoli miglioramenti prodotti ogni giorno dai diversi lavoratori. Inoltre, è impossibile fare un paragone con il tenore di vita e la crescita originata dalle industrie di elettrodomestici e di macchine, che hanno dato un grande contributo allo sviluppo economico.

Oggi è difficile pensare quale sarebbe la nuova innovazione. Non dico che condivido pienamente questa tesi; penso che ci sia per tutti i Paesi della zona euro un problema di innovazione di investimenti di competitività che chiamo i “vizi di costruzione” della zona euro.

Vedo essenzialmente tre vizi. Il primo, che ha fatto molto pensare anche alla fine dell’ euro – almeno fino a un anno e mezzo fa, prima dell’intervento di Mario Draghi -, è che i Paesi europei sono simili a quei Paesi che si ‘indebitano su una moneta su cui non hanno alcun controllo, e che dunque possono diventare insolvibili. Per risolvere questo problema ci vorrebbe una Banca centrale europea che in piena autonomia potesse intervenire sui mercati per acquistare titoli del debito pubblico. Ma a questo vizio di costruzione è legato il fatto che la politica industriale è totalmente paralizzata. Cerco di spiegarmi me­glio: uno degli strumenti, il più potente della politica industriale, è il tasso di cambio. Un Paese che non controlla nemmeno remissione di moneta non controlla il tasso di cambio e, di conseguenza, non è più in possesso di questo strumento di politica industriale. Allora non è un caso che vi sia un problema industriale a livello europeo. Negli anni Ottanta l’Europa era davanti agli Usa in materia di telefonia. Con il tempo, però, ha perso anche questo primato. Colpa di un tasso di cambio così elevato che ha reso molto più conveniente investire nella zona dollaro piuttosto che nella zona euro. Poi sono arrivati gli anni Novanta con la new technology… Come vinceremo, allora, questa battaglia industriale, se non usiamo uno degli strumenti principali della politica industriale? Come vinceremo questa battaglia, se non deci­diamo di essere competitivi e di abbassare il costo unitario del lavoro?

Una realtà come l’Europa non può vivere a lungo senza un governo. Quindi, ecco il secondo vizio di costruzione, quello che definisco della “taglia unica che non sta bene a nessuno”. Mi spiego: la taglia unica, in questo caso, è la politica monetaria, la stessa per tutti. Quando un Paese si trova in una situazione di boom, mentre un altro attraversa una situazione più difficile, il tasso di inflazione aumenta nel primo e decresce nel secondo. Ciò significa che sistematicamente il Paese in espansione perde in competitività, anche per via della mancanza di un sistema, come quello fiscale, che consente di ammortizzare queste fasi. In un Paese dove si verifichi una situazione di questo genere, le zone in crescita pagano più tasse al governo federale, quelle in recessione invece pagano meno tasse. In altri termini, c’è un ammortizzatore del­la crisi. Il vero problema dell’Italia è che non c’è un ammortizzatore, per questo è un Paese che sta andando verso una rottura strutturale. Su questo fronte, un esempio chiaro arriva dalla Spagna, che in dieci anni ha avuto un tasso di inflazione di qualche punto percentuale più alto della Germania. Questo ha fatto sì che perdesse molto in termi­ni di competitività, ma nonostante tutto non aveva problemi di disa­vanzo pubblico, piuttosto di surplus. Tuttavia, nel momento in cui la crepa della perdita di competitività è emersa, la Spagna è crollata. Ciò indica che esiste uno squilibrio che diventa tale perché non è stato contemplato. Infatti, non è stata pensata una misura che potesse limi­tare le conseguenze di effetti di questo tipo.

Il terzo vizio, infine, è legato alla ricerca di competitività, a sua volta connesso a quello delle riforme strutturali. Ce ne sono di diverso tipo. Ma quelle di cui si parla in Europa riguardano le riforme orientate alla flessibilità del reddito, che impediscono l’esistenza di una politica economica unica seguita da tutti i Paesi. C’è una concorrenza al ribas­so sociale e fiscale che qualche volta favorisce un Paese, qualche volta un altro, ma non può per definizione soddisfare tutti. Per esempio, la Francia è uscita dal tunnel della disoccupazione di massa quando ha attuato una politica di competitive disinflation, che porta a guadagnare quote di mercato nei confronti degli altri. La Germania lo ha fatto nel 2000, con ripercussioni terribili sul resto dell’Europa. E adesso quali sono le politiche seguite? Ho difficoltà a dirlo, talmente queste politi­che sanno di vecchio. Servono solo per ridurre il cuneo fiscale. L’Italia prova a farle. La Francia le ha fatte.

Poi c’è da dire che gli italiani ammirano la Francia per la grande impresa. I francesi, viceversa, ammirano l’Italia per la piccola impre­sa. L’Italia vorrebbe che la piccola impresa crescesse per diventare grande. Forse questo è un problema di riforme strutturali. Ma forse è anche la conseguenza che gli anni Duemila in Italia sono stati già anni di stagnazione, e quando c’è la stagnazione nell’economia non ci si può aspettare una crescita forte delle imprese, piccole o medie che siano. Eppure l’Italia, fino al 1995, aveva un tasso di crescita più alto degli altri Paesi europei. Il problema dell’Italia – che poi è un problema comune agli altri Paesi europei, inclusa la Francia – è che i vincoli europei sono diventati così forti che non c’è spazio per usare gli strumenti della politica economica. Siamo in un contesto tale dove anche se i governi cambiano non hanno più gli strumenti, non hanno più bilancio, non hanno più moneta, non hanno più tasso di cambio. Insomma, non hanno più una politica industriale, perché ci sono le leggi della concorrenza. Che può fare un governo senza strumenti?

Il problema di fondo è la riduzione della domanda creata dalla cri­si finanziaria, un problema che cerchiamo di curare inseguendo una politica dell’ offerta. Così, se tutti i Paesi d’Europa tagliano la spesa pubblica, se diventano più competitivi l’uno verso l’altro, come si fa a risolvere un problema di domanda? Si potrebbe pensare di risolvere tutto se l’Europa guadagnasse quote di mercato nel resto del mondo e attuasse politiche di abbassamento del tasso di cambio. Ma si trat­ta di un gioco al massacro senza fine. Quando si cercano soluzioni per affrontare un problema di tale portata bisogna avere in mente due cose. Primo: se un Paese si trova in difficoltà tali da costringerlo a intraprendere riforme strutturali. Secondo: se in questo momento vengono fatte solo politiche di questo genere, significa che non ci si occupa veramente di quello che importa alla gente, ovvero né della disoccupazione, né della precarietà, né dell’ autonomia del lavoratore nell’impresa. Non si può continuare con questi vizi di costruzione. Per risolverli bisogna avere un governo europeo, non un’agenzia indipen­dente. Inoltre, è fondamentale che questo governo prenda le giuste decisioni per fare una buona politica rnacroeconomica. Allora spesso mi si dice: «Tu sei un sognatore, non esiste un popolo europeo!». «Abbiamo bisogno di tempo per avere un genuino governo europeo. del popolo». E la mia risposta è: quanto tempo? Abbiamo iniziato a fare l’Europa sessant’anni fa! Abbiamo davanti problemi grandissimi, come facciamo a non guardarli in faccia?

Jean-Paul Fitoussi

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