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11 TESI DOPO LE ELEZIONI 2020.

25 Settembre 2020
in Editoriali
11 TESI DOPO LE ELEZIONI 2020.

Terminata la tempesta di chiacchiere, finite le analisi televisive… è forse ora di iniziare a riflettere. Assieme. Apriamo quindi la discussione…

1. Indire un referendum sul taglio dei parlamentari è esattamente come proporre all’elettorato il reddito di cittadinanza: dopo aver solleticato il peggior assistenzialismo parassitario (Volete denaro senza lavorare? E io ve lo do’!) è bene solleticare le forme più basse di invidia sociale e di ceto (dàgli alle poltrone e ai corrotti!). Come se i politici, con tutto il loro arrivismo, paura di perdere il posto, povertà culturale e conformismo non fossero l’esatto specchio del popolo che nel contempo li elegge, li sfrutta e gli sputa addosso. Leggersi ancora una volta il Libro X della Repubblica di Platone, in dettaglio i passaggi sulla democrazia. Et de hoc, satis.
2. In alcuni sport di squadra esiste il “sacrificio”: si sceglie coscientemente di perdere per ottenere un risultato su un piano differente. In tutt’Europa i “partiti dei comici”, tipici della periferia del continente (Italia, Romania, Ucraina) e prodotto di influssi esterni ricorrenti (prima di tutto FMI-Nato), condividono storicamente alcune cose: mirabolanti voltafaccia una volta comprata la vittoria promettendo soldi, cibo e sesso a tutti, e cosciente suicidio elettorale in pochi anni; anche se Di Battista ancora non l’ha capito, coloro che maneggiano Casaleggio e Grillo vogliono vedere il lavoro finito.
3. Per questo in Italia la legislazione d’emergenza è come il dopo-terremoto in Irpinia: una condizione stabile ed opportuna, destinata a durare anni. Soprattutto se maggioranza ed opposizioni ne traggono speranze di indefinita durata individuale, ché senza una connivenza di fondo di un intero ceto politicante, una farsa siffatta non potrebbe durare. Arma perfetta, consente manzonianamente di dare dell’“untore” a chiunque dia fastidio e di condannarlo dapprima all’ostracismo; poi, progredendo, alle nuove cliniche di rieducazione psichiatrica.
4. Cosa distingue infatti i progetti sulla società della odierna maggioranza e dell’odierna opposizione? Il colore delle mascherine? Il nome dell’inquilino singolo o del Comitato d’affari che si litigano le poltrone? La livrea del cameriere del momento? Mah…
5. Non si costruisce un mondo diverso senza un progetto, un sogno, persino un miraggio di Italia ed Europa differente. Se qualcuno all’opposizione ce l’ha, per favore non se ne vergogni e lo tiri fuori da sotto il tappeto. In politica, a dispetto delle apparenze, il ripensare il reale (e non smanettare nel virtuale) non è ancora un reato penale; anche se forse lo diventerà.
6. QUINDI… 1. Tanto più la rappresentanza politica è lontana (nazionale ed europea) più la gente rapidamente se n’è disincantata. Capisce rapidamente che al di là di kombinat di interessi nulla vi domina: è professione e casta chiusa, che si rinnova per cooptazione dentro i partiti e le burocrazie comunitarie. Si conferma con ciò che sono esattamente questi livelli di rappresentanza politica i più estranei, oggi, alle persone concrete ed ai corpi intermedi ancora sopravviventi. Ne deriva che è esattamente qui il primo “bersaglio grosso” di chiunque ami la propria realtà concreta, dalla propria famiglia alla comunità locale, da quel che residua dello Stato fino all’Europa unita. Che non è ancora detto che possa, o debba esprimersi storicamente negli steccati burocratici dell’UE.
7. QUINDI… 2. Le regioni sono tornate ad esprimere NON (ancora) una concezione diversa della politica, ma la richiesta di un rapporto più vero e quindi diretto fra il cittadino ed il potere. Rispetto al partito politico, è cento volte meglio il doge veneto, il duce pugliese, o’sceriffo campano. Se non altro perché ogni tanto pare che stiano ad ascoltare, e siano capaci di fare, senza dipendere dalle abissali diversità antropologiche, diremmo quasi razziali, romane.
8. QUINDI… 3. Il grande tema della Autonomia delle regioni storiche italiane, eredità diretta dei grandi Stati preunitari e della loro secolare cultura (cristiana ed aristocratico-popolare) e pertanto bestia nera di tutti i parrucconi massoni e liberali, torna di immensa attualità. Per chi voglia ancora pensare un futuro migliore.
9. QUINDI… 4. Ma non tutta l’Italia ha alle spalle una tradizione preunitaria di grandi stati: anche in mancanza di questa, le nostre aree di montagna difendono ancora, se e come possono, la propria cultura di valle, spesso commettendo l’errore di vendersi al miglior offerente politico centrale. Ma questa base malgrado tutto esiste e resiste, ampia e diversa lungo tutto l’arco alpino, dagli Occitani al plurilinguismo/pluralismo etnico ancora asburgico del Friuli. Ma anche qui c’è tanto da fare per evitare che l’identità locale muoia nel particolarismo.
10. QUINDI… 5. Infine esiste l’altra mezza Italia, erede diretta dei Feudi medievali cresciute in Signorie, utero dell’immensa cultura filosofica, artistica, scientifica per cui l’Italia è nota ed è qualcosa di unico nella storia e nel mondo. Un’Italia fatta di cento, mille campanili preziosi ed unici, capace spesso di resistenza coriacea dinanzi alla distruzione globalista, ma condannata alla fine alla sconfitta di fronte alla collosità della marmellata vischiosa che esce copiosa dal condizionamento massmediale e dei suoi stregoni. Questa identità municipale, che affonda le proprie radici direttamente nella civiltà romana, è il terzo architrave per ricostruire. Leggasi in argomento, se necessario armati di dizionario enciclopedico, il Cantos Con Usura di Ezra Pound.
11. RICOSTRUIRE. Al di là della squallida retorica del “ripartiamo assieme”, le ceneri della globalizzazione lasciano alle nuove plebi del XXI secolo la scelta di affogare nelle medesime o di riprendere a dissodare il terreno della propria identità, per costruire altro. Anche se questo lavoro non comporta uno stipendio pubblico, vi è una politica capace di farsene carico? Probabilmente no. E allora, se è tristemente così, chi lo farà al suo posto?
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