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«Economia civile, basta timidezza». Intervista al prof. Zamagni (tratto dal sito etica.it)

26 Ottobre 2013
in Rassegna Stampa

Mattatore delle Giornate di Bertinoro (vedi prima puntata del reportage), e protagonista in apertura e in chiusura, è stato Stefano Zamagni. Voce autorevole non solamente del “civile” ma della sfera economica in generale, ha risposto alle domande di ET. sullo stato dell’arte dei rapporti tra profit e non profit, Stato e Mercato. Denunciando gli ostacoli che si frappongono al superamento di un’epoca storica ormai andata.

Professor Zamagni, dove stiamo andando?

Il terzo settore italiano ha radici antichissime. Non è per orgoglio nazionale, ma per verità storica. L’abbiamo inventato noi e comincia nel 1200 in terra di Toscana quando nascono le congregazioni che organizzano gli ospedali, le scuole e si dedicano all’attività culturale nella forma del mecenatismo. Poi, con l’andare del tempo, questo modello è stato trasferito ad altri ambienti e noi italiani siamo entrati nel cono d’ombra. Ora, non è che sia scomparso, ma di fatto l’attività di Terzo Settore, fino a tempi non molto lontani, era riservata soltanto all’attività meramente assistenziale. Qual è la novità di quest’ultimo quarto di secolo, più o meno? Che i soggetti non profit hanno affiancato un’attività produttiva alla tradizionale attività di tipo assistenziale e filantropica.

Una svolta profonda, quasi strutturale.

Questa è la grande novità, che purtroppo non si riesce a far capire a livello popolare, perché i giornali non lo capiscono e quindi non fanno informazione, anzi fanno disinformazione. Quando si parla di questi argomenti, tutti fanno riferimento al volontariato. Ora è chiaro che il volontariato non può essere produttivo, è per forza redistributivo, ma chi l’ha detto che il Terzo Settore coincida con il volontariato? Allora la novità è che – per una serie di ragioni, a partire dalla diminuita presenza dello Stato nell’area del welfare, per continuare con il mutamento dei bisogni della gente – oggi si è diffusa la percezione in base alla quale la produzione e il soddisfacimento di certi bisogni non può essere garantita né dal settore privato né dal settore pubblico, ma da questo settore che tecnicamente chiamiamo “civile” perché è espressione della società civile, e che noi continuiamo a chiamare Terzo Settore. Vale a dire: ci sono certe tipologie di beni e di servizi che per essere offerti hanno bisogno di condizioni di efficienza e di efficacia che bisogna ricorrere. Questa è la grossa novità.

Questo nuovo scenario, dunque, ancora non è metabolizzato?

Di fronte a questa novità c’è ancora un’arretratezza dal punto di vista culturale, ma soprattutto giuridico, perché per passare dal non profit redistributivo al non profit produttivo bisogna capire che le organizzazioni non possono essere di flusso, ma devono diventare di stock. Cioè: non possono andare avanti soltanto con le donazioni individuali o con gli interventi che la pubblica amministrazione tende a garantire. Ma bisogna dotarle di quegli strumenti, in primo luogo finanziari, che consentano loro, come a ogni altra impresa, di programmare, di lanciarsi sul futuro e così via. Ecco qual è oggi la grossa novità. Qualcosa si sta muovendo, soprattutto sul fronte della finanza etica, o della finanza non speculativa e soprattutto sul fronte della organizzazione interna. Siamo però terribilmente indietro per quanto riguarda l’assetto giuridico e istituzionale, perché le leggi che abbiamo sono ancora quelle del passato.

La resistenza al cambiamento culturale concerne probabilmente anche gli operatori.

È vero, però sappiamo che chi opera nel Terzo Settore soffre di un complesso di inferiorità. Questo dobbiamo saperlo, non possiamo prescindere da questo. Quindi è evidente che accade come ai bambini. I bambini quando sono timidi non esprimono il proprio potenziale, c’è bisogno della mamma e del papà che, conoscendoli, li valorizzano. Qui è la stessa cosa. Se i mass media – televisione, mass media vari – raccontassero quello che avviene sarebbe un’altra cosa. Faccio un esempio. L’altra settimana i mass media hanno raccontato la catena umana a Lampedusa che è andata a salvare vite umane: tutti ne hanno parlato e tutti hanno capito che il volontariato in Italia è una cosa seria. Ma è successo perché l’hanno raccontato. Chi stava al Nord oppure al Centro altrimenti non l’avrebbe saputo. Questo è un esempio concreto. Se dicessero, qualche volta, almeno una volta alla settimana, il bene che questi soggetti producono a favori di handicappati, disoccupati, famiglie in difficoltà, eccetera è chiaro che la situazione cambierebbe. Certo, chi opera nel Terzo Settore, tu dici, dovrebbe avere più coraggio, come dire: diventare promotore di se stesso. Ma questo, voglio dire, non esiste, perché c’è sempre bisogno di qualcuno che invece aiuta a crescere come appunto il genitore aiuta il bambino a crescere.

Forse sarebbe utile anche far comprendere il superamento della frattura tra la dimensione “mercato” e “non mercato” così come conosciuta fino a oggi.

No, questo lo sanno. Magari c’è qualcuno che culturalmente è rimasto più indietro. Ma negli ultimi dieci anni i master, i corsi di alta formazione, queste giornate di Bertinoro che ormai esistono da 13 anni, hanno contribuito a diffondere una cultura non da poco a questo riguardo. Quindi rimangono sì ancora delle zone d’ombra, però posso scommettere – sicuro di vincere la scommessa – che la gran parte dei soggetti che operano nel Terzo Settore sono consapevoli di quello che fanno. Il punto è che sono intimiditi. Perché quando un soggetto non ha soldi, o comunque non ha soldi propri, e deve tendere la mano, alla fine diventa succube del primo che arriva e che gli fa fare le cose che vuole.

Lei ha parlato più volte di “potere di influenza”: come lo declinerebbe?

Ecco, quella è l’unica responsabilità che io imputo al Terzo Settore. Quella, cioè, di non voler mettersi assieme con una strategia di convergenza per raggiungere determinati obiettivi. Se il mondo del Terzo Settore, che ha un Forum a Roma, smettesse di litigare al suo interno con personalismi vari e gelosie varie, per cui uno fa i dispetti all’altro, un Forum che raggruppa circa l’80% del Terzo Settore italiano avrebbe un potere di influenza enorme, enorme. Questa è l’unica responsabilità che imputo al Terzo Settore italiano.

Bisogna bypassare il Forum del Terzo Settore?

No, non bisogna bypassare, perché si commetterebbe un altro errore. Bisogna farlo evolvere, e come si fa a farlo evolvere? Con l’insegnamento, con il buon esempio e soprattutto con l’acculturazione. Ho motivo di ritenere che non ci voglia molto perché questo avvenga. Perché quando uno tocca il fondo del barile e sente i crampi della fame allo stomaco alza i tacchi. Noi italiani siamo fatti così, abbiamo bisogno di arrivare sul ciglio del disastro per poi riprendere la giusta rotta.

Secondo lei “Terzo Settore” è ancora una definizione valida?

No, non lo è mai stata, mai. Chi mi conosce lo sa, chi legge i miei scritti lo sa che tredici anni fa ho scritto un saggio dicendo: guai a chiamarsi Terzo Settore. Ma sappiamo come vanno le cose, le parole una volta buttate in circolazione hanno una resistenza inconcepibile. L’espressione Terzo Settore non è italiana, è francese, Troisième secteur. In Francia è giusto parlare di Terzo Settore, ma non in Italia perché qui bisogna parlare di Organizzazioni della Società Civile, questa è l’espressione giusta.

Confida in un’evoluzione positiva?

Ma certo. Il guaio è che all’estero mi chiamano in continuazione, qui in Italia invece c’è più resistenza, perché siamo italiani, perché siamo fatti così, siamo pigri mentali, non ci vogliamo liberare. Ancora una volta, se pensiamo alla definizione “non profit”, tutti i giornali scrivono “no profit”, che è un errore tragico. Quindi se i giornalisti in Italia fossero più preparati e più responsabilizzati le cose migliorerebbero. Ce n’è per tutti.

Felice Meoli

 

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